lunedì 30 novembre 2009

LA SIGNORA IN VIOLA

So di avervi fatto attendere a lungo ma molti impegni mi hanno tenuta lontana da questo blog e mi scuso con i miei lettori.
Frutto di questo periodo è il racconto che pubblico di seguito. Si tratta di una slice of life dei miei personaggi... spero vi piaccia.
Due piccole avvertenze: poichè è molto lungo, la pubblicazione procederà a puntate ;-)
La seconda è, ancora una volta, un ringraziamento a chi è stato vicino a me, con i suoi preziosi consigli, suggerimenti e correzioni: Lily, Viviana ed Elisabetta ( ;-))
e un grazie anche a Francy per il suo "appoggio esterno"!



La signora in viola


Edimburgo, 1889

“Signora? E’ vostro questo libro?”
Una voce maschile, calda e profonda, fece voltare di scatto la donna che camminava sovrappensiero lungo il marciapiede di pietra di Moray Place, nella New Town di Edimburgo. Un uomo in redingote grigio scuro, dietro di lei, aveva tra le mani un piccolo libro. La copertina di pelle scura, rovinata lungo i bordi, risaltava tra le sue dita sottili coperte da guanti neri.
La donna sobbalzò: tastò la reticella, poi abbozzò un sorriso imbarazzato.
“Oh, Cielo, sì. Dev’essere scivolato via dalla borsa”, rispose imbarazzata.
Tornò sui suoi passi e tese la mano per riaverlo indietro. L’uomo, invece, lasciò scorrere il dito lungo la copertina e lo aprì, di scatto.
“Il Simposio di Platone…” mormorò.
Alzò gli occhi. Uno sguardo argentato, freddo, vuoto, si posò su di lei, ghiacciandole il sorriso sul volto, all’istante. Si sentì raggelata, come se una folata di vento le avesse colpito il viso. Istintivamente arretrò di un passo, ritirando la mano: aveva avuto la percezione di un pericolo improvviso, che non riusciva a definire.
Distolse lo sguardo. Cercò di dare un nome alla sensazione irrazionale che le aveva mozzato il respiro, ma la sua mente rimaneva bloccata dall’onda di freddo che l’aveva travolta.
Minaccia. Timore. Inquietudine.
Paura.
Fu un’emozione immediata, spaventosamente reale e nello stesso tempo inspiegabile, che l’assalì alla gola. Sollevò gli occhi sul viso altero dello sconosciuto e di nuovo, la paura l’aggredì, costringendola ad arretrare ancora.
“Una lettura inusuale per una donna.” L’uomo aveva parlato a voce bassa ma perfettamente udibile, con una sfumatura di stupore.
A quelle parole, la donna corrugò la fronte, sorpresa. Il terrore fu cancellato da uno strano miscuglio di sensazioni. Avvertì un sussulto: stizza e forse anche ribellione per quella considerazione fatta ad alta voce si riversarono nelle sue tempie, facendola tornare sui suoi passi. Il suo abito viola chiaro ondeggiò con decisione, scosso dal vento.
“Inusuale?”sillabò con voce distaccata, tendendo di nuovo la mano per riavere il libro.
L’uomo non rispose alla sua occhiata irritata. La ignorò, semplicemente. Continuò a sfogliare il testo come se si trovasse in una biblioteca, indifferente a tutto ciò che aveva intorno.
Nubi basse color dell’acciaio gravitavano sopra Edimburgo, minacciando di rovesciare il loro carico di pioggia. Moray Place era deserta.
La donna sbuffò, guardandosi attorno. “Il mio libro, signore”, ripeté allora, con un tono di voce che non aveva più alcuna patina di gentilezza. Era aspro, persino seccato.
Lui richiuse il volume con un piccolo tonfo. Sollevò gli occhi color ghiaccio e un angolo delle labbra sottili s’increspò in un accenno di sorriso.
“Ho detto che è una lettura inusuale per una donna… non che non siate in grado di apprezzare Platone, signora. Buona giornata a voi.”
Il libro tornò tra le mani della sua proprietaria. L’uomo sfiorò la falda del cappello in un gesto di saluto, poi, a passi elastici si diresse verso il numero dodici; aprì con le chiavi e sparì dietro un portone verniciato in verde.
La donna rimase immobile per pochi secondi: aveva le labbra strette, la fronte corrugata, l’aria indispettita di chi non è riuscita ad avere l’ultima parola. Scosse la testa e la bocca assunse una piega imbronciata mentre riprendeva a camminare con il libro sotto il braccio e un solo, fastidioso pensiero nella mente.
Sì, decisamente quello non era un gentiluomo.


“Mary? Chi abita al numero dodici di Moray Place?”
Elisabeth Duskell non riusciva a togliersi dalla testa l’uomo che tanto l’aveva irritata, quel pomeriggio. Adesso era nella nursery assieme a Mary, la bambinaia che si occupava delle sue figlie, Violet e Satine.
Il ricordo di quel brevissimo scambio di battute la innervosiva più di quanto fosse giustificabile; a questo si era sommata la curiosità di sapere chi fosse quell’uomo tanto saccente. Di solito, la palazzina del numero dodici era semideserta: gli scuri e le tende tirate sulle finestre nascondevano chiunque vivesse là; non vi era servitù e raramente si scorgevano luci accese.
La bambinaia, una ragazza dallo sguardo sveglio e il viso coperto di lentiggini, scosse la testa.
“Non so, signora Duskell… Ho visto entrare degli uomini ma non so i loro nomi, o cosa facciano” aggiunse, dopo un sospiro, sistemando la piccola Violet nel letto. Elisabeth fece un cenno di assenso; accarezzò la testolina di Satine, già addormentata, poi scivolò fuori dalla stanza dopo aver augurato la buona notte alla domestica.
Una lama di luce livida, proveniente dal soffitto a cupola, illuminava a malapena la tromba delle scale. La casa era immersa nel buio, in un silenzio difficile da sopportare. Il suo abito di percalle viola chiaro frusciava contro la passatoia del ballatoio, unico suono udibile assieme a quello ovattato dei suoi passi.
Elizabeth Duskell sospirò, pesante. Suo marito, Anthony, era fuori. Ancora una volta. Un‘ennesima volta.
E lei era di nuovo sola.
Anthony Duskell era un famoso docente di fisiologia della Facoltà di Medicina a Edimburgo; i suoi studi lo avevano trasformato in uno dei professori più importanti di tutta la Scozia, ragion per cui trascorreva moltissimo tempo nel suo studio in facoltà.
All’inizio, Elizabeth era stata lieta e orgogliosa dei trionfi del marito, verso cui nutriva un affetto sincero; poi, con lentezza, si era resa conto che il tempo che Anthony trascorreva in dipartimento era più del necessario.
Molto di più.
Alla fine, aveva scoperto che “l’approfondimento” di suo marito si chiamava Claire Selkirk e che effettuava “i suoi studi” ogni pomeriggio e occasionalmente anche la sera.
Era stato un colpo durissimo.
Sapeva che Anthony l’aveva sposata senza amore. Il loro era stato un matrimonio concordato tra le rispettive famiglie, tuttavia aveva sperato con tutto il cuore che si sarebbe innamorato di lei, o che per lo meno si sarebbe affezionato. Aveva solo diciotto anni, allora, e andava incontro alla vita con il cuore leggero e la testa piena di ottimismo.
Aveva sognato di avere un matrimonio felice, o almeno, sereno. Lo aveva sperato.
Il sogno era morto presto. La speranza l’aveva seguito nella tomba pochi mesi dopo la nascita di Satine, quando aveva scoperto che il marito manteneva quella Claire in una casa dalle parti dell’Università.
In un pomeriggio, l’amore per Anthony si era trasformato in cenere e polvere.
Il tradimento del marito era stato un colpo duro da mandare giù per una donna orgogliosa quanto Elizabeth, ma era riuscita a superarlo. Aveva tenuto la testa alta, lo sguardo dritto davanti a sé e aveva ignorato le chiacchiere malevole, prima e di compatimento poi, che l’avevano accompagnata negli ultimi due anni.
Aveva spostato l’asse della sua vita sulle sue figlie, sulla sua casa; alla fine, non c’era stato più nulla da dire a Anthony. Non dormiva neanche più con lei, da alcuni mesi. Era stata una decisione presa da suo marito su cui non aveva avuto nulla da obiettare.
Il suo amore era passato dalla furia per il tradimento all’umiliazione e poi ancora allo sconforto, fino ad approdare al porto calmo dell’indifferenza. L’affetto era seccato come una pianta senza cure e adesso era un albero morto nel fondo della sua anima.
Chissà com’era sentirsi amati, si chiese. Iniziò a spogliarsi, lasciando cadere il vestito viola e le sottogonne sul pavimento. Nel camino, il fuoco crepitava con un ritmo sincopato. Si sedette sulla sua sponda del letto e allungò la mano verso l’altra metà, fredda e vuota. Rabbrividì.
Doveva essere bello.
Bellissimo.


“Così hai conosciuto la nostra piacente vicina.”
La frase, appena sussurrata nel vento, raggiunse l’uomo dagli occhi grigi strappandogli un’occhiata indifferente. Era immobile, in piedi sul tetto di ardesia del palazzo al numero dodici di Moray Place.
Non era solo. Un altro uomo era alle sue spalle: alto quanto il suo compagno, indossava una camicia scura e un paio di pantaloni da equitazione. Il vento soffiava senza sosta, mescolandosi a gocce di pioggia che colpivano i due.
Non se ne curavano.
Lentamente, l’altro uomo si avvicinò a lui, camminando sul cordolo di tegole di ardesia lucide di pioggia. Da quel punto, nascosti dall’ombra di un comignolo, riuscivano a scorgere la stanza da letto di Elizabeth Duskell: videro la sua sagoma aggirarsi inquieta nella stanza, sino a che si fermò sul letto. Iniziò a leggere.
“Allora, Oliver? Vuoi passare tutta la notte ad ammirarla?”, chiese il nuovo arrivato all’uomo dagli occhi d’argento, con una leggera nota di scherno nella voce.
Quell’uomo vestito di scuro aveva occhi di un blu profondo. Erano splendidi e terribili insieme, perennemente velati da una sorta di disprezzo annoiato verso il mondo intero. Aveva un volto elegante e aristocratico, lunghe mani affusolate, capelli biondo scuro mossi dal vento.
Era bello.
Bello come un angelo caduto dal paradiso.
Oliver scosse lentamente la testa, scoccandogli uno sguardo ironico. Le sue labbra sottili, rosse, si aprirono in un sorriso pigro che svelò lucidi denti bianchi affilati. Scostò dalla fronte una ciocca di capelli neri spruzzati di grigio, bagnati di pioggia. Il suo viso, pallido e affilato, era inespressivo. Era un fascino sottile, quello di Oliver: non aveva un volto perfetto come quello del suo compagno. La sua era una bellezza inquietante, difficile da osservare.
Pericolosa.
Spaventosa.
Come i suoi occhi d’argento. Come lui.
“Quest’umana mi incuriosisce”, rispose infine, tornando a fissare la finestra illuminata. I suoi occhi grigi risplendevano come quelli dei felini: erano due sfere argentate, dalla luce innaturale.
L’uomo dal viso di angelo lo fissò per alcuni secondi con la fronte corrugata, mentre il suo sguardo perdeva la consueta patina di fastidio facendosi attento.
“Ti ha impressionato” mormorò, inclinando il capo.
Disse queste parole con lentezza, quasi con incredulità. Non era una reazione immotivata: Oliver Gordon era una creatura fredda, inumana, che aveva cancellato qualunque sentimento dal suo essere.
Nessuna empatia. Nessun interesse.
Oliver gli scoccò un’occhiataccia, egualmente divisa tra il sarcastico e l’infastidito.
“Mi hanno colpito le sue letture” spiegò. “Legge, moltissimo, e non romanzi o sciocchezze simili: saggi, filosofia, teatro. Oggi aveva in borsa una copia del Simposio di Platone.”
L’angelo si strinse nelle spalle. “Platone... Interessante!”
Oliver si voltò con una risatina beffarda appena accennata. “Hai messo anche tu gli occhi addosso alla bella signora Duskell?”
Samuel Gregor – poiché questo era il suo nome - ricambiò il sorrisetto con uno sguardo che a prima vista poteva sembrare ironico. I suoi occhi, azzurri e annoiati, si accesero di interesse e una strana, insolita scintilla li illuminò per una manciata di secondi. Sembrava… eccitazione.
Ma non era desiderio sessuale. Era più simile allo sguardo della tigre che segue la preda.
“È innegabile che sia una donna fuori dal comune. È… intrigante. Molto”. Samuel confermò, tornando a guardare verso la finestra.
“Conti di farle visita?”
Samuel annuì, passandosi la lingua sulle labbra. “Una di queste notti.” Anche i suoi denti erano bianchissimi, lucidi e affilati. “Vorresti unirti a me?” chiese.
L’altro scosse la testa. “No. In due finiremmo per ucciderla… e non credo che tu voglia questo, vero?”
L’altro sorrise. Il suo volto aristocratico era di una bellezza splendida e perversa.
“No… Non subito, almeno.”
La luce nella stanza di Elizabeth Duskell si affievolì sino a spegnersi e la facciata georgiana della palazzina scomparve nel buio, confondendosi con le altre abitazioni della piazza.
Samuel si rimise in piedi, imitato da Oliver. I loro abiti umidi di pioggia aderivano sui loro corpi. Erano immersi nella tempesta, nella notte, indifferenti a tutto ciò che li circondava. Nell’oscurità, i loro occhi brillavano con una luce sinistra, fredda.
Non erano uomini, anche se ne avevano l’apparenza. Non lo erano più da molti, molti anni.
Dei due, era Samuel era più anziano. Il suo viso, giovane e perfetto, non rivelava la sua vera età, né la sua natura, mostruosa e terribile. Oliver era una sua creatura: Samuel lo aveva chiamato a quella vita, rendendolo simile a sé e lui aveva risposto con una gratitudine e una dedizione senza pari. Anzi: con una punta di orgoglio, Samuel avrebbe potuto affermare che l’allievo aveva superato il maestro. Oliver era divenuto un essere spietato, privo di qualunque emozione.
Sorrise, guardandolo con soddisfazione. Delle sue creature, lui era il più temibile. Un assassino perfetto.
I suoi occhi tornarono alla finestra della stanza di Elizabeth.
“Domani sera” decise Samuel. “Domani sera andrò da lei.”
Oliver non rispose. Gli scoccò un’occhiata in tralice, poi spostò lo sguardo sulla piazza deserta e ancora più su, verso i tetti dell’Old Town.
“Vieni con me?” chiese. I suoi occhi grigi erano divenuti improvvisamente vivi, la sua espressione vogliosa. Affamata.
Samuel seguì il suo sguardo fino a un gruppo di case fatiscenti ai piedi di Castel Rock. Annuì.
Era ora di andare a caccia.