sabato 30 gennaio 2010

Tanti auguri Elisabetta!!!

A volte, si incontrano persone, per puro caso, che all'improvviso ti donano, con tanta generosità, bontà e fantasia ciò che non avresti mai immaginato.
Elisabetta, questa donna splendida, una grande scrittrice, è stata ed è questo per me. La stima e l'affetto che ho per lei sono stati un dono grandissimo, una delle cose più belle dell'anno appena trascorso. A lei auguro ogni bene, e serenità, che possa ricevere ciò che desidera dalla vita.
Buon compleanno, Lady Elizabeth! 1000 e più giorni di felicità!

martedì 19 gennaio 2010

LA SIGNORA IN VIOLA... ultima parte.

So già che mi odierete.
So già che mi darete della bastarda senza cuore. Fate pure.
Quello che vi presento qui è il "loro" mondo, prima di conoscere ciò che davvero può cambiare la vita... e che cambierà le loro esistenze.
E se un giorno riuscirò a pubblicare, saprete anche come questo avverrà...
Grazie!




Nella casa di Moray Place, al numero dodici, una pendola batté dieci rintocchi. Era notte. Raffiche di vento freddo spazzavano le strade, facendo gemere gli alberi sotto i loro colpi.
Un paio di stivali scuri percorse in un innaturale silenzio la scalinata che portava dal primo al secondo piano. Si fermò dinanzi a una pesante porta di legno chiaro ed entrò, senza attendere risposta. Nella stanza arredata con mobili risalenti alla generazione precedente, Samuel Gregor leggeva, seduto alla scrivania. Parlò, senza alzare gli occhi.
“Allora?”
Oliver si sedette e accavallò le gambe con un gesto fluido. Era vestito di scuro, in un completo da equitazione. Il suo volto solitamente bianco era soffuso da un velo di colore.
“Sono stato dalla nostra vicina. È quasi allo stremo delle forze” disse, lasciando scorrere pigramente lo sguardo sugli incartamenti sparsi sul piano. Tabelle, bilanci, comunicati, lettere commerciali: erano le tracce della loro attività nel mondo degli esseri umani.
“Come mai non l’hai finita?” domandò Samuel, rivolgendogli un’occhiata curiosa.
Oliver lo guardò in tralice, con un’occhiata furbesca. “Ho pensato che tu volessi darle un ultimo saluto.”
Elizabeth Druskell era stata una scommessa avvincente per entrambi. Un passatempo, un divertissement insolito. Samuel era stato attirato dalla sua bellezza raffinata, Oliver dalla sua forza.
L’avevano privata di entrambe le cose. Alcune notti prima, quando Samuel era entrato nella sua camera per aprirle la vena del polso, l’aveva trovata emaciata, con il volto chiuso da un’espressione addolorata. Bevendo da lei, aveva scoperto che non era il peso della malattia a darle questa sofferenza, quanto la consapevolezza che la propria vita stava per finire e che non avrebbe avuto il tempo di mettere ordine nella sua esistenza, soprattutto nel rapporto con il marito e le figlie.
Se avesse avuto pietà o compassione, Samuel avrebbe cessato di torturarla. Avrebbe ordinato a Oliver di non darle più la caccia e l’avrebbero lasciata vivere. Ma non prese mai in esame un’idea simile: Elizabeth era divenuta il suo gioco favorito, in quei giorni e non voleva rinunciarci, non adesso che erano quasi alla fine.
Voleva essere lui a sentire il brivido della vita divenire morte. A godere del suo respiro che si spezzava, del suo cuore che cessava di battere.
Oliver lo aveva capito. E aveva rinunciato a prendere la vita di quell’essere umano per lui, perché rispettava profondamente colui che lo aveva creato. Il suo Padre.
Per “loro”, togliere la vita era un piacere ineguagliabile.
Samuel alzò la testa e sorrise.
“Supererà la notte?” chiese.
Oliver annuì, senza parlare, fissandolo con i suoi gelidi occhi d’argento. Sapeva sempre quando fermarsi: da che la sua natura era cambiata, aveva ucciso centinaia di esseri, umani e non. Ma non avrebbe ucciso quella donna: aveva lasciato a Samuel questo privilegio. Lui aveva già avuto la sua soddisfazione.
Da assassino qual era, Oliver conosceva abbastanza la morte per sapere che un altro corpo avrebbe già ceduto. Elizabeth Druskell, invece, si era aggrappata alla vita, affannandosi a cercare nella sua mente la ragione di ciò che le stata accadendo. Aveva sentito il suo corpo farsi debole, la sua mente diventare più lenta ma continuava a opporsi alla morte, con tenacia: ormai da diversi giorni non riusciva più a leggere da sola e doveva chiedere al marito o alla bambinaia di leggere ad alta voce.
La sua volontà era ancora lì, forte, ed era l’unica cosa che la teneva in vita. Oliver aveva trovato quel coraggio irresistibile. Doveva distruggerlo. Così l’aveva torturata, dissanguandola, notte dopo notte, assieme a Samuel. Le avevano dato la caccia, l’avevano ridotta allo stremo. E quella notte, lui le aveva inflitto il colpo di grazia.
Era stato un piacere incredibile avvertire il cedimento della sua volontà.
Era entrato dalla finestra, scivolando tra le ombre. Elizabeth era semi incosciente; nel dormiveglia, si era voltata verso di lui, con gli occhi socchiusi, febbricitanti.
Si era chinato sul suo letto per azzannarle il polso, mostrandole il suo vero volto, quello della sua natura. Quando aveva avvertito la fitta del morso, gli occhi di Elizabeth si erano spalancati: lo aveva fissato, colma di orrore, troppo debole per protestare. Sul suo viso, lo stupore simile a quello dei bambini che fissano un nuovo gioco, incapaci di rendersi conto del suo funzionamento.
La luce nello sguardo di Elizabeth cambiò, repentinamente. In quel momento, Oliver avvertì la sua volontà schiantarsi, sbriciolarsi in mille pezzi. La sua rabbia di vivere esaurirsi di colpo. I suoi occhi e la sua anima si spensero e la disperazione dilagò nella sua anima.
Orgoglio. Fu questo ciò che Oliver provò quando sentì che la forza della donna si era piegata al suo potere. Che si era arresa. Che era pronta a morire.
Fu un piacere primordiale. Incredibilmente intenso.
Avrebbe potuto ucciderla, lì, in quel momento, e il godimento sarebbe stato completo. Perfetto. Ma si trattenne.
Sapeva che Samuel desiderava prenderle la vita, così, si era staccato dal suo polso ed era tornato alla sua dimora. Aveva avuto la sua soddisfazione: le aveva spezzato l’anima. Alla sua vita poteva anche rinunciare.


Il mattino dopo questi eventi, il luminare che aveva visto Elizabeth poche settimane prima fu richiamato d’urgenza. Il professore visitò la donna, ascoltò le sue parole e annuì, comprensivo.
Più tardi nello studio del marito, la parola “consunzione” fu accostata a “delirio”.
Quando il medico se ne fu andato, Anthony si lasciò cadere di schianto su una sedia dell’ingresso e si coprì il volto con le mani.
Fuori, il vento di novembre schiaffeggiava le facciate di Moray Place e le staffilava con violente gocce d’acqua. Il freddo era prepotente; le nubi di tempesta concedevano solo una luce opaca, torbida. Nulla era paragonabile al gelo che si era insinuato dentro Anthony Druskell.
Elizabeth delirava. Da quella notte. Aveva iniziato a parlare di uno spirito maligno, una sorta di diavolo come l’Uomo Nero, con gli occhi come quelli degli spunkies che si era aggirato per la camera e che l’aveva azzannata. Aveva mostrato al marito i segni sui polsi, gli aveva detto che ora sapeva chi era stato a farla ammalare e che dovevano impedire a quel mostro di assalirla di nuovo o sarebbe morta…
Anthony l’aveva confortata, mentre sentiva il suo cuore agghiacciarsi.
Deliri. Allucinazioni. Ferite auto inflitte.
Non c’era più dubbio, ormai: Elizabeth stava morendo. I segni inequivocabili della pazzia erano la testimonianza che la misteriosa consunzione di cui era stata vittima sua moglie era giunta all’ultimo stadio.
Sarebbe morta e l’avrebbe lasciato solo con due bambine piccole e un rimorso difficile da sopportare. Anthony aveva molto da rimproverarsi e, con vergogna, ammise che non avrebbe fatto in tempo a ottenere anche un surrogato di perdono. Nulla.
La mente di Elizabeth era stata corrosa dalla malattia, e a nulla sarebbe valso parlarle: lo aveva capito dai suoi occhi folli. Disperati. La domestica l’aveva trovata seduta, con i capelli scompigliati, il viso cereo e le sottili vene blu che risaltavano sul dorso delle mani e sui polsi. Era sconvolta: si dibatteva fino a rimanere senza forze, per poi riprendere a mormorare frasi sconnesse su quegli occhi che aveva visto nella stanza e sull’uomo misterioso vestito di nero che le aveva tagliato le braccia. Sua moglie era regredita all’infanzia, alle leggende che si raccontavano ai bambini per spaventarli.
Si era aggrappata a lui, stringendo con violenza le falde della sua giacca, con una forza che poteva provenire solo dalla pazzia. Aveva parlato, piantandogli addosso gli occhi sbarrati. I capelli erano scarmigliati, la camicia da notte le pendeva scompostamente su una spalla e lui, per la prima volta, aveva notato i graffi sul petto, sul collo, sulle braccia.
Come era stato così cieco?
Lei intanto continuava a parlare e a dibattersi. “Ti giuro Anthony… devi credermi, era qui, qui, qui nella mia stanza, al buio, e mi guardava e lui mi guardava, lì, vicino alla tenda era…. fermo, e poi…si è avvicinato, io dormivo ma non dormivo, devi credermi… lui mi ha morso, sul polso, vedi?” Aveva mostrato una cicatrice oblunga e violacea sul braccio. “Guarda! Lui mi ha morso, mi ha fatto male e dopo io… io sono stata peggio,e ho provato a chiamare Mildred ma lei dormiva! Dormiva mentre quello… quel mostro mi ammazzava perché io morirò, adesso lo so… lui era il diavolo e mi prenderà, io lo so… aspetterà il buio, come ha fatto stanotte e io morirò e sarò sola e disperata…”
Le parole sconnesse di sua moglie si erano fissate nel suo cervello come un marchio a fuoco. Era più di quanto potesse sopportare. Aveva dovuto staccare a forza le dita di una Elizabeth delirante dalla sua giacca e grazie ad una dose di laudano era riuscito a calmare la sua follia. Il suo collega, con uno sguardo pieno di compassione, lo aveva invitato a prepararsi al peggio, prima di uscire.
Nessuno però avrebbe potuto dirgli come placare quell’angoscia che gli schiacciava il petto.
Cosa rimaneva da fare ormai, se non ammettere di non aver saputo aiutare Elizabeth?


La notte cadde su Moray Place. Trascorse in silenzio, mentre Elizabeth Druskell fissava le finestre. Non voleva cedere al sonno. Torturava le lenzuola stringendole tra le dita, con una tale forza da bucarle sulla falda. Le sue labbra sussurravano frasi smozzicate, invocazioni e preghiere dimenticate da tempo, ripescate affannosamente nel fondo della memoria.
Accanto a lei, seduto su una poltrona di cintz rosato, Anthony sonnecchiava. Aveva letto per sua moglie, fino a che lei non aveva fatto cenno di volere un po’ di silenzio.
Elizabeth sentì le ore trascorrere e mescolarsi allo stormire delle fronde e al fischio del vento contro le pareti di pietra della sua casa; le aveva sentite scorrere attraverso il ticchettio dell’orologio posto sulla cornice del camino.
Sapeva che quelle erano le ultime ore di vita. Lo sentiva con cristallina certezza. Non era pazza, lei.
Era lucida.
Aveva capito che suo marito non aveva creduto a una sola parola di ciò che lei aveva detto. Per lui, medico e uomo di scienza, era stato assai più comodo attribuire quelle parole a un delirio. Non era possibile che ciò che diceva sua moglie fosse vero. I suoi occhi si erano riempiti di una pena infinita e per un attimo, Elizabeth aveva scorto un fiotto di dolore. Infine, era subentrata l’incredulità. La compassione. La rassegnazione.
La credeva pazza. Tutti la reputavano fuori di senno.
Elizabeth si era lasciata andare, allora. Aveva accettato il laudano senza protestare.
Era così sola… ed era tanto, tanto stanca. Il suo corpo non le obbediva; persino respirare era divenuto faticoso; negli occhi di coloro che le stavano vicino leggeva pietà, o pena.
Così, Elizabeth scelse di non combattere più. Scelse di tacere perché nessuno le avrebbe creduto: né Mildred, che aveva sentito piangere fuori dalla porta, né suo marito che le aveva somministrato farmaci, né il suo collega che l’aveva invitata a riposare con uno sguardo indulgente. Scelse di arrendersi perché non voleva soffrire oltre.
Sarebbe morta, ma non sarebbe stata una malattia a portarla alla fine della sua vita.
“Perché?” si chiese, in un soffio. “Perché io?”
Doveva esserci un perché. Una ragione. Lei sapeva, lei aveva visto che qualcuno… o qualcosa esisteva. Sapeva che era vero. Non era un incubo: quell’essere l’aveva morsa davvero. Non era riuscita a ribellarsi, a gridare il suo orrore perché quella… cosa l’aveva fissata negli occhi e lei aveva capito, in un solo istante, che non ci sarebbe stata pietà. Si era sentita schiantata. Il suo corpo era ancora vivo ma la sua anima era stata disintegrata.
Anthony si mosse sulla poltrona, aprendo gli occhi. “Mi hai chiamato?” chiese, con lo sguardo impastato dal sonno.
Lei fece cenno di no, poi parlò, piano.
“Va’ a dormire, Anthony: sei esausto. Riposati” sussurrò.
Il marito la scrutò, sbattendo le palpebre. “No. Non voglio lasciarti sola…” rispose, rimettendosi in piedi a fatica.
“Chiama Mildred, allora” fece lei, a voce leggermente più alta. “Vai.”
Anthony scrutò con attenzione il viso della moglie: era rilassata, serena. Sembrava lucida, aveva persino un po’ di colore sulle guance. Nelle ultime ore aveva smesso di delirare e si era richiusa in un silenzio assorto e vigile, spezzato da brevi intervalli di sonno.
Una piccola, minuscola parte della mente dell’uomo si permise di sperare. Forse era stato solo un episodio… Perché non avrebbe dovuto riprendersi, perché Elizabeth non poteva migliorare? Forse c’era ancora speranza per lui.
Con un piccolo cenno, l’uomo annuì e si recò nella stanza della servitù, dove dormivano la cuoca e le altre donne di servizio. Chiamò Mildred che, insonnolita, si avvolse nella coperta, sistemandosi sulla stessa poltrona dove Anthony aveva sonnecchiato.
Elizabeth non disse una parola. Li guardò, con occhi lucidi e distanti, osservando i loro gesti con uno sguardo che solo apparentemente era quieto.
Si sentiva come coloro che guardano una nave portar via i propri cari, ferma su un pontile, con un’immensa sensazione di strazio, di vuoto. Ma non erano gli altri ad allontanarsi: era la sua esistenza che si stava allontanando da lei e non poteva far nulla per impedire che ciò accadesse. Era scritto, lo sentiva nelle vene. Era ancora lì, nella sua stanza, ma ormai non era più parte di quel mondo.
Era lontana. Ed era sola.


Una folata di vento più forte delle altre svegliò Elizabeth dal torpore in cui era scivolata. La luce proveniente dal lume era spenta, forse perché l’olio era finito; nel camino, un ceppo stava esaurendo la sua esistenza, corroso dal fuoco. L’aria nella stanza era fredda e sapeva di malattia.
Poco distante dal suo letto, Mildred russava sonoramente, avvolta nella coperta, con la mano sotto il mento. Povera donna, pensò Elizabeth. Alla sua età costretta a passare le notti su una poltrona così scomoda…
Un brivido di freddo le attraversò il corpo. Ebbe la sensazione che la temperatura nella stanza fosse scesa ulteriormente.
Il ceppo nel camino collassò su se stesso in una marea di scintille e per un istante la camera fu illuminata da quel bagliore rossastro. Poi la luce si abbassò, lasciando scivolare la stanza nel buio.
Ma quel fiotto di luce era stato sufficiente per Elizabeth.
Aveva visto una sagoma nera accanto alla finestra semiaperta.
Un grido inarticolato le sfuggì dalle labbra. Si voltò verso Mildred, frenetica, e cercò di chiamarla. Era lì, non lo vedeva? Perché non si svegliava?
“Non si sveglierà, Elizabeth.”
L’ombra nera aveva parlato. Si era avvicinata al letto e si era accostata a lei.
Si sedette. Il volto era in ombra, coperto da un velo d’oscurità. Gli occhi, azzurri, freddi, scintillanti galleggiavano nell’oscurità, fissandola.
La donna riuscì a sentire persino il materasso che cedeva affossandosi sotto quel peso. Fu un movimento leggero, quasi si trattasse del corpo di un bambino, ma non era così: qualunque cosa fosse, aveva la forma di un uomo adulto e ne possedeva anche la voce.
Non era un sogno, lei lo sapeva. I sogni non hanno peso. Non parlano.
Rimasero in silenzio. Solo il lieve borbottare di Mildred nel sonno e il crepitio della cenere nel camino spezzavano quell’atmosfera irreale. Lei attendeva che qualcosa, qualunque cosa avvenisse. Che tutta quella sofferenza, finalmente, avesse fine.
Improvvisamente, Elizabeth si sentì pervadere da una strana calma. Una pace sottile, paralizzante, che arrivò dritta al cuore. I suoi occhi si riempirono di lacrime, mentre si lasciava andare sui cuscini.
Era la prima volta che piangeva per se stessa. E pianse, Elizabeth. In silenzio, quasi con vergogna. Pianse per la sua vita senza amore, per tutta la solitudine che aveva dentro e che in quel momento la stava soffocando; pianse per tutto ciò che avrebbe voluto fare e che non avrebbe più potuto, per le figlie che non avrebbe visto crescere, per il dolore così reale della morte che l’attendeva.
Sarebbe stata dimenticata. Non in fretta, certo. Suo marito e le sue figlie avrebbero sofferto ma con il tempo si sarebbero abituati a quella sofferenza. I suoi domestici l’avrebbero ricordata come una brava padrona. I suoi libri… chissà che fine avrebbero fatto? Sarebbero finiti in un cassone in soffitta, proprio come i suoi vestiti, le sue cose… i suoi sogni.
Chiuse gli occhi.
Non sapeva chi era quell’essere. Non voleva più nulla. Solo morire e dimenticare.
Ciò che accadde dopo la colse di sorpresa. Sentì una mano ghiacciata sul viso, scostandole i capelli dalle guance fino ad accarezzarle il collo. Si lasciò andare contro i cuscini. Sentì la sua vita fremere nelle vene, in attesa di scivolare via. Non avrebbe fatto nulla per trattenerla.
All’improvviso, come un soffio di vento, delle labbra si poggiarono sulle sue.
Chiunque fosse quell’essere, la stava baciando.
In quegli istanti, Elizabeth sentì il suo cuore battere, carico di una forza che non aveva mai sentito in tutta la sua vita, come un’esplosione di luce al centro del cuore che si propagava a tutto il corpo, che la rese leggera. Viva. L’emozione più forte, intensa e dolorosa che avesse mai provato.
Dolce. Struggente.
Elizabeth si lasciò cadere in quel bozzolo di luce. Si abbandonò a quelle mani gelide.
Fu allora che l’ombra si staccò dalle sue labbra e si chinò sul suo collo, azzannandola.


Samuel avvertì con un brivido di piacere l’esatto istante in cui il cuore di Elizabeth smise di battere. Sentì il suo respiro bloccato a metà strada tra i polmoni e le labbra, vide la sua pelle perdere colore, gli occhi spalancarsi.
Si separò da lei un secondo dopo.
Non avrebbe saputo dire perché aveva deciso di baciarla. Forse era stato il suo viso, bello nonostante il pallore, o i suoi occhi così spaventati. Curiosità, forse. O forse una traccia della sua umanità, chi poteva dirlo? Comunque, non era stato spiacevole.
Si strinse nelle spalle, guardando le ombre disegnate dalle braci rossastre nella camera. Nutrirsi di Elizabeth era stato un raro godimento. Ucciderla era stato l’apice. La caccia era durata più del solito ed era stata molto divertente. Peccato fosse finita…
Lanciò un’occhiata ai piedi del letto. Laggiù, qualcuno - il marito forse - aveva abbandonato la copia del Fedone che Oliver le aveva fatto trovare sul tavolo.
Era aperto all’ultima pagina: era la morte di Socrate, avvelenato dalla cicuta.
<>
Samuel si alzò e sorrise. Lanciò un’occhiata verso Elizabeth Duskell: le sue labbra erano socchiuse, gli occhi sgranati, il volto cereo.
“La donna più bella e cosciente di Moray Place” sussurrò.
Poi afferrò il libro; si avvicinò alla finestra e si lasciò scivolare giù, verso la strada buia.
E la notte lo inghiottì.

sabato 9 gennaio 2010

La signora in viola (terza parte)

Sono lieta di scoprire che questo racconto lungo - o romanzo breve, dipende dai punti di vista - sta avendo un bel successo.
Che diere, se non grazie a tutti voi che avete la pazienza di leggermi?
A voi... e come al solito, troverete più in basso le puntate precedenti.
Enjoy!



(...)
La ripresa di Elizabeth fu costante, più rapida di quanto il marito potesse aspettarsi.
Anthony passava dalla stanza della moglie la mattina e alla sera; trascorreva con lei del tempo, parlando o leggendo. Elizabeth lo ascoltava con diffidenza ma non lo respingeva. Il ricordo delle cure che il marito aveva avuto per lei la turbava e, nel contempo, la feriva.
Non osava sperare in un riavvicinamento.
Se lui l’avesse delusa di nuovo, lei non avrebbe avuto la forza di reagire. Preferiva tenerlo a distanza: era cortese con lui, accettava volentieri la sua compagnia ma non riusciva ad abbattere quel muro che aveva costruito tra loro.
Non voleva e non poteva.


Circa dieci giorni dopo quel mancamento, Elizabeth era con le bambine nel piccolo giardino che c’era dietro casa loro, al numero dieci. Indossava il suo abito preferito, quello viola chiaro, con uno scialle in tinta, ed era seduta su una poltrona mentre le sue figlie giocavano assieme a Mary.
Alzò lo sguardo verso il cielo. Il sole stava tramontando in un cielo viola e grigio; la brezza tiepida che aveva soffiato per tutto il pomeriggio fuggiva via, sostituita dal vento freddo del crepuscolo. Lasciò scorrere gli occhi lungo le facciate posteriori delle case accanto alla sua, fino a fissare le finestre del numero dodici.
La casa le sembrò disabitata. Poco dopo però, al secondo piano, qualcuno scostò la tenda. Un viso apparve alla finestra. E la fissò.
Con un brivido di angoscia, Elizabeth riconobbe lo sconosciuto che aveva incrociato pochi giorni prima. I suoi occhi grigi e inquietanti sembravano brillare nel crepuscolo e la squadravano, con insistenza.
A disagio, la donna abbassò lo sguardo sul libro che teneva in grembo. Era ancora il Fedone di Platone. Sebbene lo avesse già letto una volta, continuava a rileggerlo: c’era qualcosa in quelle pagine che la colpiva e la affascinava, anche se non aveva capito cosa. Sapeva solo che doveva leggerlo e scoprirlo.


Oliver fece un passo indietro, sparendo dalla vista della donna. Sorrise tra sé.
Samuel, da esteta, aveva ragione nel definire la signora Druskell una donna notevole: aveva una bellezza quieta, tranquilla che conquistava con il suo fascino elegante.
Ciò che aveva notato lui, invece, era la sete di conoscenza dell’animo umano e delle leggi del mondo che la animava. Solitamente, le sue prede erano umani privi di importanza, da cui prendeva il necessario per sfamarsi senza ucciderli. Ciò avveniva non per uno scrupolo morale ma per evitare che un numero eccessivo di morti mettesse in allarme le Forze dell’Ordine e desse il via a fastidiose indagini.
Gli esseri umani erano spesso stupidi e come tali, pericolosi. Meglio limitare i rischi.
Ma Elizabeth Druskell non era un essere umano comune: era una di quelle prede fatte per una caccia lunga ed esaltante.
Non l’avrebbe presa e uccisa con un taglio alla gola. Lui e Samuel avevano trovato un tacito accordo su di lei: non finirla subito ma torturarla, indebolirla fino a piegarla all’angoscia e alla disperazione.
Sarebbe stata un’esperienza molto più piacevole.
Oliver aveva scorto negli occhi castani della donna una luce particolare che aveva visto in pochi uomini: era fame di vita, sete di conoscenza. Una preda del genere rappresentava una sfida irresistibile per lui. Uomo o donna, adulto o vecchio non importava: se possedevano quella forza di vita che la maggior parte degli esseri umani non riusciva neanche a percepire, lui li avrebbe uccisi. Perché era quel desiderio di vivere, il coraggio di affrontare la vita a viso aperto che lui voleva possedere. In questi rari casi, gli umani passavano dal rango di fonte di nutrimento a quello di giocattoli con cui divertirsi, fino a distruggerli.
Voleva vincere quella forza. Spezzarla.
Sarebbe stato un piacere ineguagliabile assaporare il suo sangue caldo, sentirlo prima sul palato, poi scorrere nelle vene...


La mattina dopo, Elizabeth Druskell fu trovata riversa sul letto, debolissima e febbricitante. Il marito, preoccupato per la salute della moglie, chiamò un famoso collega per un consulto.
Poco dopo, nel suo studio, fu sussurrata la parola “consunzione”.
Nessuno dei due illustri professionisti aveva notato i segni rossi sul collo e sulle braccia della donna o, se lo avevano fatto, avevano attribuito loro scarsa importanza. L’unica cosa che riuscivano a vedere era la perdita progressiva delle forze di Elizabeth e l’incapacità del suo corpo di reagire.
Stavolta l’attacco era stato assai più violento: Elizabeth rimase a letto per giorni, chiusa nella sua stanza, alternando lunghe ore di incoscienza a momenti di veglia.
Quella strana malattia iniziò a minarle la mente. Lei si imponeva di resistere, di continuare la sua vita: leggeva un altro passo da un libro o si rialzava sui cuscini per parlare. Non era da lei abbandonarsi e lasciarsi servire. Ma era sempre più difficile reagire.


Non c’erano miglioramenti. Elizabeth continuava a peggiorare. Certe mattine, sentiva il suo corpo pesante, sfinito, ed era quasi impossibile per lei alzarsi o chiamare la cameriera. La mente scivolava in un torpore nebuloso, oscuro, privo di suoni, in cui non provava nessun dolore: una sensazione spaventosa e insieme confortante. Una sorta di oblio che la metteva al riparo da angoscia e paura. Lentamente, un’idea prese a farsi largo nella sua mente, insinuandosi tra le pieghe del pensiero cosciente.
La prospettiva della morte si fece avanti in maniera subdola, persino invitante.
E lei aveva sempre meno forze per respingerla.


Anthony, preso dal panico, aveva ricominciato a trascorrere le serate in casa, accanto alla moglie. La fissava per ore, mentre il fuoco del camino disegnava lunghe ombre sul suo viso pallido, chiedendosi cosa fare per aiutarla. Il suo collega aveva parlato di un deperimento fisico improvviso dovuto probabilmente a un grave dispiacere.
Lo sguardo di riprovazione che aveva accompagnato quelle parole era stato più pesante di un macigno. Il suo senso di colpa era aumentato a dismisura. Non amava sua moglie, né aveva fatto nulla per instaurare con lei un’amicizia o una sorta di complicità. Nulla. I loro rapporti, civili e rispettosi, non erano mai stati affettuosi, neanche nell’intimità del loro letto.
In quasi sette anni di matrimonio, non si erano scambiati una confidenza o un sorriso spontaneo. Lei glieli aveva offerti, lui li aveva ignorati.
“Ho sete.”
La voce di Elizabeth lo strappò a quelle riflessioni scomode. Anthony prese un bicchiere e l’aiutò a bere, sollevandola dai cuscini. Sentì lo sguardo di Elizabeth sul suo viso; evitò di incrociarlo, a disagio. Appena la appoggiò sui cuscini, lei parlò, con voce rauca.
“Sto morendo?”
Anthony, sorpreso, non rispose subito. Fissò le fiamme del camino, poi rispose con lentezza.
“Non lo so. Sei deperita, debolissima e non sappiamo davvero quale sia la causa.” Deglutì, continuando a fissare il fuoco, poi continuò, a fatica. Sentiva le parole uscire di bocca con riluttanza e doveva fare uno sforzo di volontà per pronunciarle.
“In questi giorni, io ho pensato molto, Elizabeth. Ho capito molte cose. Mi sono reso conto di averti… trascurato e credo di doverti delle scuse per questo.”
Elizabeth lo fissò, sbigottita. Aveva sognato per tanto tempo di udire quelle parole, che ora non riusciva a credere di sentirle.
Non può essere vero si disse, con un brivido di panico. C’era solo una spiegazione per quella confessione e il pensiero la fece ridere. Fu una risata amara, acuta, che spiazzò Anthony, facendogli sollevare la testa di scatto.
“Allora è vero! Sto davvero per morire se senti il bisogno di lavarti la coscienza! Cosa vuoi da me, l’assoluzione?”
La voce di lei vibrò, carica di sarcasmo: sorpresa, collera, delusione e paura si mescolarono sul suo viso. Le sue guance pallide diventarono improvvisamente rosse, gli occhi lucidi. In quei giorni di malattia, aveva osservato suo marito e aveva notato quanto il suo atteggiamento fosse cambiato. Ma non era riuscita a capire la ragione della sua condotta. O forse preferiva non pensarci.
Deglutì. I suoi sospetti erano stati confermati. Purtroppo.
L’uomo sospirò, rumorosamente. “No. Non stai morendo” ribatté, con una punta di risentimento. Perché non capiva?
“Oh, allora come mai hai deciso di ammettere di avermi umiliato dinanzi a tutta Edimburgo, così all’improvviso? Perché ritieni doveroso farmi le tue scuse, adesso? Suona a dir poco strano viste le circostanze, non trovi? Dimmi, quanto mi rimane? Un mese? Settimane?”
Anthony sospirò di nuovo, a disagio stavolta.
“No, Elizabeth, tu non capisci, io…” provò a replicare. Voleva spiegarle, doveva…
Lei fece un cenno con la mano. “No” disse. “Basta. Non aggiungere altro.”
E con uno sforzo, voltò la testa dall’altra parte, ignorandolo. Sconfortato, Anthony uscì in silenzio dalla stanza.
Non vide la lacrima di Elizabeth rotolarle giù per il viso.


Passarono i giorni. Lenti, pesanti. Arrivò Novembre. L’inverno si avvicinava a grandi passi, preceduto da piogge e da un vento freddo che soffiava dal Forth.
La salute di Elizabeth stentava a migliorare: periodicamente, il deperimento che l’aveva colpita si accaniva ancor più sul suo fisico, rendendolo sempre più debole.
Da più di un mese non usciva da casa il suo volto delicato, adesso aveva una luce livida e grigia; gli zigomi erano in evidenza, gli occhi cerchiati da aloni violacei.
Tuttavia, la malattia sembrava averla resa ancora più bella. Il suo sguardo era carico di una forza disperata. Ogni mattina lottava con il suo corpo per rimettersi in piedi, vestirsi, scendere nel piccolo salottino se stava un po’ meglio. Combatteva i brividi di freddo, la debolezza che le accorciava il respiro e la lasciava spossata, aggrappandosi alla vita con tutte le sue forze.
Nessuno, neanche lei, fece mai caso alle piccole cicatrici sulle braccia e sulle caviglie.

(continua...)