venerdì 29 ottobre 2010

Auld Reekie #4

Chiedo scusa se ho tardato a pubblicare la nuova puntata ma ho passato una settimana frenetica. Spero di farmi perdonare anche se immagino già che alcuni di voi mi odieranno per il finale di capitolo... 


4

Al tramonto, Edimburgo era coperta d’oro e cenere: l’oro del sole agonizzante che si rifletteva sull’ardesia e la cenere della pietra, grigia di sporco e fumo.
Anteprima immagineSamuel lasciava che il vento gli scompigliasse i capelli, immobile dinanzi a una finestra dell’ultimo piano di Canongate. Lassù, il puzzo di fogna non era così forte; a folate, invece, giungeva l’odore della legna bruciata nei camini.
Dietro di lui, Lizzie Hates, seduta su una poltrona, ricamava un sampler. Erano nella sua stanza: piccola, con il soffitto basso, un letto a baldacchino, un comò. Le cortine del letto, la coperta, le tende erano in giallo, con piccole foglie e delicate rose ricamate.
«Sei preoccupato».
Lentamente Samuel annuì.
Di una bellezza lussureggiante, Elizabeth Hates aveva fatto girare più di una testa a Edimburgo. Capelli rossi, bocca sontuosa, occhi nocciola, seno prosperoso. In molti avevano tentato di corteggiarla, anche in modo insistente ma tutti erano stati scoraggiati con fermezza. Un uomo ci aveva rimesso il collo. Letteralmente.
Lizzie parlò senza sollevare gli occhi dal ricamo. «Pensi ai roghi di Londra e York, vero?», continuò, fermando il punto sotto la trama. Prese dal cestino da lavoro un rocchetto blu e staccò con i denti il filo, sistemandolo nell’ago.
«Perché non ci nascondiamo?», chiese, placida.
«Non è così semplice. Sparire tutti insieme sarebbe una tacita ammissione di colpa: se alcuni di noi non sono sospettati, lo sarebbero immediatamente una volta svaniti.».
Samuel progettava da tempo di lasciare Edimburgo assieme a Joanne, ma questo riguardava solo loro due: erano in città da molti anni e prima o poi qualcuno avrebbe notato che non invecchiavano o che non uscivano alla luce del sole.
Vivere sotto gli occhi degli umani era tutt’altro che semplice.
Dovevano organizzare la fuga con cura, senza dare nell’occhio. Tuttavia, prima di compiere passi precipitosi, bisognava capire cosa sospettavano i loro cacciatori. Per questo motivo aveva invitato George Dyce: Joanne avrebbe scoperto cosa sapeva il buon dottore, un ex cacciatore divenuto osservatore.
Samuel ringhiò.
I Fratelli della Luce, custodi dell’umanità.
I puri, gli illuminati.
Si nascondevano al buio come vermi, pronti a colpire a tradimento, eppure si proclamavano tutori dell’ordine naturale delle cose. Tutto ciò che gli uomini riuscivano a capire e catalogare era considerato normale. Ciò che non lo era, che sfuggiva alla loro comprensione o semplicemente era diverso, era ingiusto e mostruoso.
Quel pensiero fece fremere Samuel di rabbia.
Ordine naturale delle cose?
Non esisteva un ordine naturale, non esisteva alcun ordine. Punto.
Era una sicurezza che Samuel e quelli come lui avevano raggiunto e superato ormai da secoli: non esisteva alcuna certezza, nessuna fede incrollabile.
Niente è per sempre.
L’infinito era la menzogna cui gli uomini si aggrappavano per non impazzire, pur senza riuscire a sopportarne il vero significato. Se gli esseri umani avessero mai capito che non esisteva alcuna sicurezza, che tutto ciò che li circondava era un’illusione, sarebbero crollati a terra schiantati dal nulla che riempiva le loro vite. Samuel, invece, conosceva bene l’infinito.
E sapeva che in esso non vi era alcuna speranza.
Lizzie si alzò venendogli accanto e gli sfiorò la spalla. «Qualunque cosa accadrà, la affronteremo» sussurrò con dolcezza.
«No. Io dovrò affrontarla, Lizzie: tutti voi siete sotto la mia responsabilità. Ho chiesto a Will di andare a Inverness per trovare una sistemazione per te, Ester e John. Io con Joanne e Oliver andremo nelle Trossachs».
Lizzie corrugò la fronte. «Perché separarci? Non capisco…».
«Stiamo organizzando un piano di fuga, ma molto dipende da ciò che scopriremo nei prossimi giorni. Will vi precederà; tu ed Ester non potete partire da sole, quindi viaggerete con John. Ufficialmente, vi recherete nella vostra casa ad Aberdeen».
«E tu?» Lizzie balbettò. «Joanne? Oliver?».
«Noi partiremo dopo un mese. Oliver non può sparire: sarà il nostro osservatore e continuerà a lavorare in città».
«Zach?».
«Rimarrà in città a far ciò che sa fare meglio: la spia». Samuel la fissò in tralice. «Lui sarà l’ombra del dottor Dyce».
«Ester sa di questi nuovi piani?».
«Non ancora. Gliene parlerà Joanne, stasera. Uscirete a caccia?».
Un lampo di luce fredda brillò negli occhi nocciola della ragazza, rendendoli simili a quelli di una volpe che puntava una preda. «Sì. Vuoi unirti a noi?».
Samuel sorrise lentamente. Lasciò scorrere lo sguardo sui tetti, per soffermarsi su un punto preciso, un mucchio di tetti di legno fatiscenti, a poca distanza dal Castello. Anche i suoi occhi avevano acquistato uno spaventoso, freddo scintillio.
«No. Non stasera», mormorò roco, sfiorandosi le labbra con i denti.
Lizzie gli lanciò uno sguardo e rise forte.


Bridget tornò a casa mentre una notte umida calava sulla città. Alle sue spalle, soffocato dalle nuvole, il sole stava morendo. Lanciò un’occhiata rabbiosa verso il cielo, poi scese sottoterra alla luce delle torce.
Iniziò a sentire le grida dei suoi fratelli già a distanza di alcuni metri.
«Sei tu che me lo hai preso! Ridammelo!». Sembrava Dick, un fratellastro in realtà: solo lei e Joseph avevano avuto lo stesso padre. Gli altri marmocchi che sua madre aveva sfornato erano figli di uomini diversi. Entrò nella stanza in tempo per vedere due ragazzini che si picchiavano; in un angolo sua madre gemeva chiamando Joseph.
Bridget afferrò i due per i capelli. Erano Dick e Charlie.
«Se volete scannarvi andate fuori, maledizione!» gridò, dopo averli separati a forza.
«Mi ha rubato il coltello! Quello di Joseph, con il manico di legno». Dick si avventò contro il fratello minore, cercando di colpirlo con un calcio.
Bridget che si era messa nel mezzo, si prese il colpo sulla gamba. «Ehi! Sta’ fermo, accidenti!».Si voltò verso Charlie. «Lo hai preso tu?».
«Sì! E allora?». Il ragazzino aveva una faccia insolente che ricordò a Bridget l’uomo che l’aveva messo al mondo, un carrettiere senza arte né parte, sparito dopo aver scoperto che aveva un’altra bocca da sfamare.
«Ridaglielo!», ordinò scrollandolo. Per tutta risposta, Charlie la spinse via.
«Chi ti credi di essere per darmi ordini, puttanella?».
Bridget sbarrò gli occhi e un fiotto di rabbia le salì in gola. Senza pensarci, mollò un manrovescio al ragazzino, tanto forte da farlo cadere indietro. Con un rumore simile a uno squittio, il coltello scivolò fuori dalla sua tasca.
Dick fu lesto a prenderlo. Ebbe un sorriso di trionfo più simile a un ghigno, poi scappò.
Charlie rimase a terra, la mano immobile sulla mascella, gli occhi stretti, carichi di lacrime di umiliazione. «È quello che sei! Una battona da pochi penny», biascicò con disprezzo, rimettendosi in piedi.
Bridget non rispose. Arretrò e lasciò che anche lui scappasse via. Cadde in ginocchio ma non pianse. Non piangeva mai, lei.
Charlie aveva ragione: era una puttana. Anche oggi aveva mangiato perché era tornata dal solito cuoco che stavolta, non si era limitato a mettergli le mani addosso: l’aveva portata nel magazzino sul retro e le aveva alzato le sottane. Il tutto era finito in dieci minuti scarsi.
Chiuse gli occhi: voleva scappare via, dimenticare il suo nome, la sua vita.
Nell’angolo, sua madre intonò una strana ninna nanna. Poco lontano, David la scrutò con aria perplessa, indeciso se parlarle o meno. Bridget allungò la mano per fargli una carezza ma lui arretrò, spaventata. La ragazza distolse lo sguardo con una scrollata di spalle. Da una tasca della veste tirò fuori due pezzi di pane e una mela, il ricavato del suo lavoro. Quanto a lei, aveva spuntato un piatto di pasticcio.
«La vuoi?», chiese porgendogli il frutto. David annuì: l’afferrò e la morse.
«Tu dove mangi, Brid?», chiese, a bocca piena.
La ragazza abbozzò un sorriso amaro e gli lisciò i capelli scuri. «Fuori. Tu mangia in fretta, su».
Bridget…
Una sottile corrente d’aria fredda le sfiorò la nuca, uno spiffero gelido, dolce come una carezza. Bridget si voltò di scatto, guardandosi attorno. Ebbe la sensazione che qualcuno la chiamasse…
Nessuno.
Diede un pezzo di pane a sua madre, che teneva stretta una bambola di pezza. Chissà dove aveva raccattato quel pupazzo: erano giorni ormai che non metteva il naso fuori dal tugurio.
Bridget.
Un istante dopo, di nuovo quello spiffero. Freddo, gentile, quasi il tocco di due dita che le sfioravano la nuca; la faceva fremere di meraviglia dalle caviglie fino alla testa. Subito dopo, Bridget sentì le proprie mani tremare.
Vieni da me.
Una smania pressante e inspiegabile, iniziò a risalirle dal ventre fino al petto, alla gola, alle labbra. Le braccia e le gambe divennero pesanti, si sentì soffocare. Non poteva restare lì un minuto di più.
Vieni, Bridget…
«Devo andare» balbettò rimettendosi in piedi sotto gli occhi stupiti del fratellino.
David la fissò da sotto in su con la bocca piena di pane, senza capire che stava succedendo.
Bridget si mise in piedi, gli occhi fissi a terra, le mani impazienti. Raccolse lo scialle e uscì quasi correndo. Non poteva fare altrimenti.
Qualcuno la stava chiamando.


Fuori. Era andata fuori, aveva dovuto farlo.
Edimburgo, adesso, era fatta di buio. Il mondo che conosceva, composto di vicoli e di mura di pietra, era abbracciato da una sottile bruma perlacea. La città aveva perso di colpo i colori che il sole morente le aveva regalato: la notte li aveva rapinati, sostituendoli con un opaco, denso velo che copriva ogni cosa.
Respirando piano, Bridget guardò a destra e a sinistra. Sentì una frenesia oscura di allontanarsi da tutto e tutti, un’agitazione che la stava possedendo. Non potè far altro che obbedire, quasi senza rendersene conto. Il bisogno di correre galleggiava nei suoi pensieri, inspiegabile, e la costringeva ad andare avanti, la guidava tra i vicoli e le strette scalinate, fino alle pendici del Castello.
Come se una voce misteriosa e sconosciuta nella mente la guidasse.
Poi si arrestò di colpo, ansimando. La voce che l’aveva condotta sin lì era sparita dalla mente, lasciandola vuota.
Dove diavolo era finita?
Si guardò attorno a occhi sgranati: stranamente, non sapeva riconoscere il vicolo dov’era finita. I contorni degli edifici erano sfumati, spruzzati di nebbia. Vedeva a destra una luce, e poco più in basso, le rocce della parete est del Castello… ma non era mai stata lì.
Impossibile, si disse scuotendo la testa, stringendo i lembi dello scialle sul petto: conosceva ogni anfratto della città.
Sentì il panico invaderle la mente e toglierle lucidità. L’umidità densa le penetrò nelle ossa, facendola rabbrividire e non solo per il freddo. Si guardò attorno, cercando dei punti di riferimento ma non riuscì a trovarne.
Era Edimburgo, ma non la riconosceva. Incerta, arretrò di alcuni passi, fino a che non trovò alle sue spalle la fredda, scivolosa pietra di un muro. Il cuore iniziò a pulsarle forte, di angoscia e paura: lo sentì sbattere contro le costole, imprigionato nel petto.
Con l’istinto di chi vive per strada, Bridget percepì un pericolo, qualcosa di sconosciuto e spaventoso. Il panico aumentò: non sapeva come fuggire. Perché doveva fuggire, questo era certo, lo sentiva.
Un rumore di tacchi sul selciato.
Istintivamente, Bridget arretrò, nascondendosi nell’ombra di un vicolo. Se avesse potuto, avrebbe cercato di sparire nella pietra: aveva paura, una paura stramaledetta.
Infine, scorse un’ombra muoversi nel buio, in fondo al vicolo. Un uomo con un soprabito scuro, senza cappello. Camminava con calma. E si dirigeva verso di lei.
Giunto a pochi passi dal punto in cui Bridget si era nascosta, le si fermò davanti, la guardò negli occhi. La ragazza si sentì intrappolata da quello sguardo, quasi inchiodata al muro: non riusciva più a pensare, poteva solo respirare a fatica.
«Sei stata svelta. Brava».
L’accento era privo di inflessioni, l’andatura elegante. Doveva essere un ricco, uno sfaccendato. Ma che ci faceva lì, a quell’ora? Come aveva potuto vederla nel buio? E soprattutto, cosa voleva dire con sei stata svelta?
Bridget rimase in silenzio, con gli occhi allacciati a quelli dell’uomo. Quel tizio aveva occhi strani… non sapeva come definirli: scintillavano nell’oscurità, come quelli dei gatti. Era l’unica cosa che riusciva a percepire del suo viso, celato dal buio.
«Hai paura, piccola Bridget?».
La ragazza annaspò verso la parete in cerca di un appiglio, una via di fuga. «Come sapete il mio nome? Che volete?».
Sentì un terrore improvviso risalire dalla schiena, fino a mozzarle il respiro. Arretrò ancora verso il fondo del vicolo e il sudore si mescolò con l’umidità della notte. Il freddo era dentro e fuori di lei.
L’uomo la seguì, tenendosi a distanza. Era alto, forte. Le faceva una fottutissima paura.
Bridget indietreggiò ancora, pensando come scappare. Scattò di lato, verso l’ingresso del vicolo. Subito, un braccio freddo e solido la bloccò e si trovò schiacciata contro la parete, sbattendo la testa sul muro.
Subito dopo, una mano le coprì la bocca. Presa dal panico, la ragazza cercò di morderla. Era cresciuta per strada, non era la prima volta che qualcuno cercasse di aggredirla e non sarebbe stata neanche l’ultima. Scalciò, si dibatté, lottò con pugni, poi raccolse le sue forze e sferrò una ginocchiata verso l’inguine dell’assalitore. Lo colpì con la forza della disperazione, pronta a respingerlo e a scappare via non appena si fosse piegato in due dal dolore.
Non accadde nulla del genere.
Si udì soltanto una risatina soffocata, poi la presa sul suo corpo divenne ferrea. Terrorizzata, Bridget si afflosciò a occhi sbarrati, sconvolta: non gli aveva fatto nulla. Eppure, l’aveva colpito forte! Lui, invece, rideva. Quel bastardo schifoso stava ridacchiando.
La voce dell’uomo fu un mormorio divertito. «Brava, piccola Bridget. Mi piacciono le ragazze che sanno difendersi».
La ragazza avvertì un soffio freddo che le sfiorò l’orecchio. Tentò di divincolarsi di nuovo, alzò un braccio per graffiargli la faccia e costringerlo a mollare la presa, ma lui la tenne stretta tra la parete e il proprio corpo. L’avvolse tra le sue braccia, impedendole qualsiasi fuga.
Era in trappola.
Bridget capì di aver ceduto quando sentì un sapore salmastro sulle proprie labbra: lacrime che rotolavano giù dal viso. Chiuse gli occhi, incapace di fermare i singhiozzi. In quell’istante, il suo corpo smise di obbedirle e si abbandonò contro parete, appoggiandosi quasi all’uomo.
Che facesse pure quello che voleva: era stanca, non ce la faceva più a lottare. Sarebbe stato solo un altro episodio schifoso della sua altrettanto miserabile vita, un’ennesima violenza. Doveva rassegnarsi e sperare che si sbrigasse presto, senza farle troppo male.
L’uomo non allentò la presa; Bridget alzò la testa e lo fissò attraverso il buio: era a pochi pollici, eppure non riusciva a vederlo in viso. Anche lui la stava guardando: con interesse, quasi con curiosità.
«Povera piccola Bridget…».
Stava parlando con lei. Con la mano libera, le sfiorò il viso, dagli zigomi fino al mento, poi scostò via i capelli ricci dal collo.
«Ti hanno tolto tutto. I tuoi sogni, i desideri, persino la speranza… Tua madre è pazza, la tua famiglia distrutta… tuo fratello è morto e tu… tu devi venderti per mangiare. O forse, non hai mai avuto qualcosa che potessero strapparti. È così, non è vero? Tu non hai perso nulla perché non hai mai avuto niente, neanche te stessa. Sei solo una povera disperata».
Come faceva a sapere così tante cose di lei? Bridget sussultò, sconvolta. Non c’era scherno in quelle parole: solo pura, cruda commiserazione.
Eppure, aveva una voce… bella. Calda, carezzevole. Nessuno le aveva mai parlato con tanta dolcezza,, causandole una sofferenza bruciante. Il dolore che sentiva dentro le corrodeva l’anima come acido, ma non poteva, non riusciva a essere infuriata. Nessuno le aveva mai sfiorato il viso a quel modo: con riverenza, come se fosse stata preziosa. Cercò di nuovo il volto dell’uomo, ma non riuscì a trovarlo nel buio. Scorse soltanto gli occhi, luminosi e fredde come pietre preziose.
Intuì che l’uomo stava sorridendo. «Chi sei?» balbettò, pur sapendo che non avrebbe avuto risposta.
«Ti importa davvero? No… Ormai non hai più nulla da perdere. Piccola ragazzina senza speranza… La tua è una vita inutile».
Era vero.
Bridget chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un singhiozzo: era tutto maledettamente vero. Lei era solo una spina nell’infinito roveto del mondo, non una rosa. Non si era mai fermata a pensare tanto in tutta la vita come in quegli istanti, in quella notte: non aveva mai avuto coscienza di sé, della propria inutilità e del dolore che aveva dentro.
La solitudine l’assalì alle spalle, così come aveva fatto poco prima la paura. E fu mille volte più devastante.
«Cosa vuoi da me?», riuscì a balbettare. Una strana sensazione le dilagava nell’animo, invadendola a grandi onde: una calma innaturale, che sommergeva ogni pensiero cosciente, guidandola per mano nel buio. Lontana da se stessa e dal mondo, lontano da tutto.
«Tu vuoi smettere di soffrire. Lasciati andare Bridget, lascia andar via il dolore. Permetti che io ti dia la pace».
Sì… la pace.
Il nulla, il buio, il vuoto, lontano dal dolore. Non aveva voglia di pensare: pensare faceva troppo male e lei non voleva più soffrire. Cullata da quella voce, sentì il corpo farsi morbido, cedevole. Sì, cullata, come se fosse stata di nuovo una bambina molto piccola, senza pensieri, senza preoccupazioni se non quella di trovare il seno di sua madre.
Sentì il terrore scivolare via, l’angoscia sciogliersi.
La presa dell’uomo si trasformò in una stretta più simile a un abbraccio. Era avvolgente e, insieme, cauta. Per la prima volta nella sua vita, la ragazza si sentì al sicuro: chiuse gli occhi, lasciandosi andare contro il petto dell’uomo e due braccia forti si richiusero su di lei, in una vertigine oscura.
Cadde in una spirale di buio e silenzio. Si sentiva leggera, vuota. Il suo pensiero cosciente era trascinato alla deriva dalla corrente dell’oblio, come una barca senza ancora verso un banco di nebbia sospeso sul lago della coscienza. Un frammento della sua mente urlò: doveva reagire, tutto ciò era assurdo.... Bridget, con un sussulto di volontà, respinse quella voce: stava bene. Non sapeva quanto sarebbe durato quello stato di grazia e voleva approfittarne.
Era così bello sentirsi svuotata da ogni angoscia, dall’astio, dalla rabbia. Solo il silenzio.
Non percepì il puzzo di quel vicolo fetido. Non avvertì il freddo sempre più forte che le impregnava la pelle, non sentì le dita dell’uomo abbassarle il colletto della camiciola, sfiorandole il collo con labbra gelide, né il suo scialle che finiva a terra.
Non percepì il suo corpo farsi debole, o il battito del suo cuore sincopato. Il dolore alla gola che diventava bruciante.
Non vide quei due occhi vispi, spaventati che la sbirciavano dal fondo del vicolo.
Sentì la pace, il silenzio, il corpo che perdeva consistenza fino a sparire. Si sentì pulita, per la prima volta nella sua vita.
Per la prima e ultima volta in tutta la vita.

lunedì 25 ottobre 2010

Behind the scenes: Libera Schiano Lomoriello di Parole e Pensieri in libertà

Libera, benvenuta qui al Moray Place. Preferisci accomodarti in biblioteca o nel salottino posteriore che da’ sul giardino? I miei "amici" sono in giro per cena e non ci disturberanno...

Ciao Stefy, grazie dell’invito e anche della cortesia di avermi avvisato della loro assenza. Visto il freddo fuori direi meglio la biblioteca, e poi stare in mezzo ai libri mi piace, mi infonde un calore speciale, molto meglio di qualsiasi camino.

Go to fullsize imageAdesso che siamo comode, parliamo un po' di te. Come nasce il tuo blog? Cosa ti ha spinto a crearne uno?

Il blog nacque vari anni fa dal mio impulso irrefrenabile a scrivere. Come dice il nome Parole e pensieri in libertà, voleva essere come un diario dei miei scritti. Allora scrivevo prevalentemente versi e infatti in giro per il blog si possono trovare diverse poesiole vecchie e nuove. Ogni tanto poi vi pubblicavo una canzone che mi aveva colpito o una citazione particolare. Da qui a scrivere recensioni il passo è stato breve. Poi qualche tempo fa ho pensato di sfruttarlo per qualche bella iniziativa, per conoscere meglio il mondo delle scrittrici e anche per pubblicizzarlo un po’, così sono cominciate le varie interviste e poi anche gli speciali.

Dio che screanzata sono! Vorresti una tazza di the? o preferisci un caffè lungo? Ovviamente, i dolcetti sono scozzesi ( e dunque burrosi e caloricissimi...)

Oh buonissimi i dolcetti al burro, grazie. Col the poi sono perfetti.
Go to fullsize image 
Cosa ti piace leggere? Confessa, senza pudore e senza vergogna!

Guarda io leggo tutto, ma proprio tutto davvero. Spesso ho letto libri solo per sfida o per ribattere qualche critica o per i motivi più diversi. Mi piace ad esempio dare una chance agli esordienti.
Il mio genere preferito è la narrativa, la letteratura di evasione, ma anche qui spazio tra tantissimi sottogeneri. Le uniche certezze mai crollate sono Jane Austen e Ken Follett. Credo che, scritto da loro, leggerei anche l’elenco del telefono.

Il libro più importante della tua carriera di lettrice. Perché ti è rimasto dentro? Cosa ti colpisce di più in un romanzo?

Che domanda difficile… posso dire che uno dei romanzi che rileggo più spesso è Orgoglio e pregiudizio, ma di libri significativi, che hanno determinato qualcosa di importante nella mia vita, ce ne sono vari. Ad esempio L’ultimo dei Mohicani che ha determinato il mio nick di sempre (freecora), grazie ad un personaggio femminile che riuscì ad entrarmi dentro.

Domanda di rito. Cosa pensi dell'editoria italiana?

Che maltratta gli autori italiani.
Io penso, ad esempio in ambito romance, che ci siano varie realtà positive, che amano il colloquio con le lettrici e sembrano anche aperte alle proposte. Poi c’è l’editoria da grande consumo, con romanzi anche nelle edicole, che permette tante letture a prezzi ragguardevolmente bassi, ma che ha il difetto grandissimo di lasciarli disponibili alla vendita per periodi troppo brevi.
Sarebbe bello, ad esempio, che la distribuzione fosse sempre continua, magari acquistando on-line. O magari potrebbero tenere bassi, a livello dell’edicola ad esempio, i romanzi acquistati direttamente sul sito della casa editrice, dato che loro risparmiano il passaggio ai rivenditori.
Inoltre le traduzioni dei romanzi da edicola non sono sempre all’altezza dell’originale e spesso ci sono anche tagli o edulcorazioni che rendono il prodotto non soddisfacente.
Ho fatto un trattato politico ihihihihihihih

Quanto peso ha oggi il blog nella tua vita? Hai pubblicato una serie di interviste, dedicato degli articoli alle autrici dei settimanali femminili. Cos'altro hai in serbo nel tuo cappello?

Il blog è la mia isola, un posto dove posso condividere gioie e dolori con le amiche, parlare delle mie letture, far conoscere, tramite recensioni e interviste, le autrici del panorama italiano. Finora gli speciali li ho dedicati a chi scrive ma è poco conosciuto, come le blogger che pubblicano romanzi a puntate e ora le collaboratrici di riviste e settimanali. La prossima idea invece è un qualcosa che coinvolgerà tutti, scrittori e lettori.
Dal 1° Novembre p.v. su Parole e pensieri in libertà, si aprirà una gara di scrittura, un po’ per gioco un po’ per conoscere altre amiche che si dilettano a scrivere. Il titolo sarà 1000 spazi per un bacio e consisterà nell’inviare un brano, di 1000 caratteri spazi inclusi, che descriva la scena di un bacio. Poi, tramite una votazione pubblica e non anonima, sarà eletto il vincitore che verrà pubblicato a capodanno su vari siti/blog/forum.
Tu parteciperai vero Stefy? O debbo chiederlo direttamente ai tuoi amici? Magari al telefono però, non mi fido molto dei loro baci… soprattutto ad esserne vittim… aehm… a beneficiarne.

E' stata davvero un'intervista piacevolissima. Ti accompagno alla porta... non si sa mai che qualcuno di loro sia tornato in sede e abbia ancora un po' di appetito! Chiudi bene il cappotto, ricorda che a Edimburgo piove spesso!

Posso portarmi via qualche dolcetto? Grazie della bella chiacchierata cara, a presto.

venerdì 22 ottobre 2010

Auld Reekie #3

3


Anteprima immagineIl sole morente filtrava attraverso le tende di velluto azzurro che schermavano le finestre al numero 15 di Canongate. Una stretta lama di luce illuminava la credenza di legno scuro su cui troneggiavano liquori e una caraffa d’acqua.
Nessun membro della servitù era presente.
Seduto a capotavola, Samuel teneva tra le dita un bicchiere pieno per metà di whiskey. Faceva roteare il liquore senza berlo: aveva un profumo antico, di mare e di torba, e gli riportava alla mente sensazioni che perdute. Osservava il liquido ambrato in silenzio, quasi potesse leggervi il futuro.
Quel pensiero gli strappò una smorfia simile a un sorriso amaro. Lui non aveva un futuro: il suo destino era già scritto.
Oggi come ieri, domani come oggi.
Come un serpente che cambia pelle ma che rimane sempre uguale a se stesso.
Scrutò il proprio riflesso deformato dal bicchiere panciuto. Non c’era poi molto che potesse cambiare nella sua vita: nulla e nessuno poteva modificare il passato, così come non poteva mutare quello di coloro che lo circondavano.
E nessuno avrebbe potuto cambiare il suo futuro.
O sì?
La risposta non venne e lui non si affannò a cercarla. Era così e basta. Aveva combattuto con tutte le forze contro il suo destino, lo aveva piegato a proprio favore. Non provava rimpianto per ciò che aveva perduto: sarebbe stato insensato, oltre che stupido.
Aveva forza e potere, invece, ben più di quanto avrebbe mai immaginato anni prima, quando era solo un montanaro che badava alle greggi. Aveva lottato per difendere ciò che possedeva. E così sarebbe stato per sempre…
Forse, si corresse con stizza, se coloro che li minacciavano non li avessero trovati e distrutti prima.
No. Non lo avrebbe mai permesso. Mai.
Poggiò il bicchiere sul tavolo con un colpo secco e sollevò gli occhi verso gli altri uomini presenti nella stanza.
«Dyce verrà qui. Joanne proverà a scoprire se la Fratellanza sta già facendo delle ricerche, e soprattutto, se sospettano già di noi».
Will corrugò la fronte, fissando i bicchieri sul tavolo, pieni di liquore che nessuno di loro aveva bevuto. «Avranno dei membri attivi in città?» considerò, sollevando gli occhi.
Samuel alzò lo sguardo verso uno dei due uomini seduti in fondo al tavolo, in penombra. «Sicuramente. Cercheremo di conoscere i loro nomi». Si rivolse a uno dei due uomini seduti all’altro capo del tavolo. «Zach?».
Due occhi verdi di muschio e legno lo fissarono intensamente. «Dimmi, Padre».
«Va’ a casa Dyce. Il dottore avrà un elenco dei confratelli: trovalo e scopri i loro nomi. Inoltre, rintraccia qualunque comunicazione della Fratellanza che provenga da Londra o da Cardiff».
L’uomo annuì. Mostrava all’incirca trent’anni; portava un piccolo pizzetto scuro, che sfiorò con due dita, meditabondo. Capelli castani legati dietro, viso allungato, fisico smilzo. Era vestito come un popolano: abiti lisi ma puliti. Sedeva dritto senza guardarsi attorno e parlava con tono basso, privo di accento.
«George Dyce è uno scienziato. Stento a credere che si sia fatto coinvolgere dai Fratelli della Luce in una loro crociata in un’epoca avanzata come questa».
«Il dottore non è solo un osservatore, Zach: è un ex cacciatore. Sa cogliere segni che gli altri umani non noterebbero nemmeno. Inoltre… conosce sin dall’università Burgess e Corbridge».
Nel sentire quei nomi, sguardi tesi corsero da una parte all’altra del tavolo.
Un silenzio irreale cadde nella stanza. Nessun suono. Nessun respiro.
«Sapranno già della nostra esistenza qui a Edimburgo?»
Fu Oliver a porre quella domanda, sollevando gli occhi glaciali dal bicchiere.
Samuel rispose dopo alcuni istanti, con lentezza.
«A mio avviso lo ritengono possibile: Edimburgo è la capitale della Scozia, ed è una città popolosa. Se hanno anche solo un sospetto, ci staranno alle costole finché non avranno la certezza assoluta e, a quel punto, colpiranno immediatamente. Se non riusciremo a batterli sul tempo, dovremo affrontarli» mormorò, alzando gli occhi simili a lapislazzuli. «E non ci sarà concesso alcun errore»


Accidenti al mondo intero! Bridget Tibbs scalciò via un topo che era sgusciato tra i piedi, lungo le scale che portavano al tugurio dove viveva. Lasciò alle spalle il sole morente che bagnava le facciate dei palazzi e iniziò a scendere nell’oscurità.
Era di pessimo umore, spaventata e avvilita.
Niente. Non aveva trovato un lavoro. Era riuscita a tirare su un piatto di stufato in una taverna lasciandosi mettere le mani addosso dal cuoco, ma nulla più: nessuno voleva dare lavoro alla sorella di un ladro impiccato.
«Maledizione a te, Joseph», imprecò. Suo fratello era stato un idiota a farsi arrestare e adesso che era morto, aveva lasciato lei a trascinare la carretta.
Una zaffata di fetore nauseante l’accolse appena giunse sottoterra: quello era il ventre di Edimburgo, di Auld Reekie, la vecchia puzzolente. Quei vicoli sotterranei erano il suo intestino molle e malato. Lei stessa era come un verme, un parassita che la infestava, come tutti i pezzenti che galleggiavano nelle fogne ai piedi del Castello.
L’umidità, laggiù, era la cosa peggiore. L’umidità e il freddo che entravano nelle ossa. E poi ancora la puzza, i topi, la sporcizia...
Si sfilò lo scialle e una massa sporca di riccioli scuri le scivolò sulle spalle. Rabbrividì, sentendo dei colpi di tosse stizzosi: era Mary, una vecchia mendicante. Prima o poi, anche quella avrebbe tirato le cuoia e finalmente avrebbe potuto dormire una notte in pace.
Trascinando i passi, arrivò fino a un arco scavato nella pietra, coperto da una tenda. Il vicolo che aveva percorso era stretto, buio, illuminato da torce che scoppiettavano, diffondendo una luce rossastra, metallica.
Sospirando, Bridget entrò nella stanza e strizzò i grandi occhi scuri per vedere dove metteva i piedi. Filtrava a malapena un po’ di luce dalla tenda e dal braciere che scaldava la stanza. Meglio così, pensò: almeno evitava di vedere il letamaio in cui viveva. Quattro pagliericci gettati lungo le pareti, delle ceste in cui tenevano i loro stracci, una madia sbrecciata che non conservava cibo da tempo.
Sua madre era rannicchiata a sonnecchiare in un angolo: stava così da due giorni, da quando aveva visto impiccare Joseph. Dei suoi fratelli, neanche l’ombra. Che andassero al diavolo anche loro, imprecò fra sé. Che spariscano, ingoiati dall’inferno e non si facciano più vedere.
Si lasciò cadere davanti al fuoco abbracciandosi le gambe. Era stanca.
«Hai portato qualcosa da mangiare, Brid?», chiese una vocetta acuta, alla sua destra.
La ragazza si voltò con lentezza. Due occhietti vispi, scuri come i suoi, la fissavano nel buio: era David, il più piccolo di tutti i suoi fratelli, raggomitolato in mezzo alla paglia.
Bridget annuì: qualcosa aveva, sì. Quel porco del cuoco si era voltato per mettere lo stufato nella ciotola e lei aveva afferrato un pezzo di pagnotta nascondendolo sotto il vestito. Mise la mano sotto la camicia e tirò fuori un pezzo di pane, spezzandolo con le mani sudice. Il bambino l’afferrò, arretrando contro il muro. Era vorace, ansioso di finire presto: temeva che i fratelli maggiori tornassero da lì a poco. Allora gliel’avrebbero rubato.
Bridget distolse lo sguardo, tornando a fissare la fiamma nel bacile di rame. Per quella sera, lei non avrebbe avuto fame, ma domani? E dopo? Avrebbe dovuto farsi di nuovo mettere le mani addosso? Non voleva. Piuttosto, sarebbe andata a rubare: persino il rischio di finire sulla forca era preferibile a quella miseria infame.
D’un tratto, la madre si voltò verso di lei e la fissò con occhi velati.
«Bridget, sei tu? E’ tornato Joseph?».
La ragazza aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse con uno scatto. A sua madre era definitivamente andato di volta il cervello da quando avevano tirato giù Joseph dalla forca. Si limitò ad allungarle un pezzo di pane.
«Sì, ma’. È già uscito. Ti ha lasciato del pane».
La donna, con il viso simile a una corteccia d’albero sbiancata dal sole, allungò la mano fino a trovare il pane: lo tastò, incerta, e poi lo ficcò in bocca mugolando.
Bridget deglutì a vuoto, mentre il sapore acre della rabbia le avvelenava la gola. Avrebbe avuto voglia di urlare: era arrabbiata con suo fratello che si era fatto arrestare e impiccare come un babbeo, con la madre che si era buttata addosso un secchio di lisciva, con un padre che neanche aveva conosciuto, con i suoi fratelli, dannati accattoni.
Con sé stessa.
A dirla tutta, avrebbe voluto esserci lei al posto di Joseph. A quest’ora, lui non stava a preoccuparsi di cosa mettere sotto i denti visto che i vermi stavano mettendo sotto i denti lui.
Dietro la tenda si mosse qualcuno, un’ombra leggera. La ragazza trasalì per un istante, poi tornò a guardare il fuoco; David si era allungato vicino a lei e si era rannicchiato contro le sue ginocchia per cercare un po’ di calore. Senza parlare, Bridget prese una coperta e lo coprì; poi lo spostò sul pagliericcio accanto alla madre, affinché lo tenesse caldo con il suo corpo. David protestò debolmente nel sonno e socchiuse gli occhi, stringendosi alla madre. La donna guardò il bambino con aria assente: da tempo non riconosceva più i figli più piccoli.
Carica d’insofferenza, Bridget decise di uscire. Se doveva andare all’inferno, tanto valeva iniziare subito a camminare.
David sollevò la testa. «Dove vai?» chiese con la vocina impastata dal sonno.
La sorella non rispose: si limitò a guardarlo per un istante, con la mano sulla tenda, il viso immerso nella penombra dorata di una torcia. Scosse la testa in silenzio.
Poi sparì.


Era ormai notte fonda. La casa immersa era nel silenzio; il crepitio delle fiamme era l’unica cosa che si udiva nella stanza buia. Le tende rosa carico erano tirate sulle finestre, le lenzuola ripiegate con le coperte.
Tutti gli altri erano fuori.
A caccia.
In casa c’era solo lei, e Samuel.
Joanne scostò dalla fronte i capelli sciolti e tornò a fissare la fiamma nel camino. Aveva freddo, un freddo gelido che non voleva andarsene e che giungeva sino all’anima. Si sedette a terra davanti al fuoco, abbracciandosi le ginocchia, guardando le fiamme senza vederle. Subito la pelle del suo viso perfetto divenne calda, i piedi e le braccia acquistarono un tepore piacevole.
Eppure, continuava a sentire freddo.
Un gelo che non sarebbe andato mai via, che partiva dal cuore e che arrivava fino al cervello.
Chiuse gli occhi. Il letto dietro di lei era pronto per la notte, con lo scaldino tra le coperte. Poteva coricarsi, ma non sarebbe servito a nulla. Non avrebbe dormito.
Non poteva.
Il freddo e l’amarezza non sarebbero andati via, mai. Non aveva senso rinviare oltre. Chiuse gli occhi e affrontò il suo buio.
Tutto era scaturito da qualcosa che lei non aveva mai voluto. Era semplicemente… accaduto. Aveva spezzato la sua vita, regalandole un’esistenza diversa, aveva dovuto affrontare tutto ciò che era successo, dopo.
Aprì di nuovo gli occhi, tornando a fissare le fiamme. Quel movimento continuo, mai uguale a se stesso la tranquillizzava, togliendole un po’ dell’amarezza che l’avvelenava. Strinse più forte le braccia attorno alle gambe.
Diamine! Si rimproverò, aspra. L’unica cosa certa che possedeva era la sua esistenza. Ciò che aveva subito era terribile, ma erano ormai trascorsi molti, moltissimi anni, e non poteva far altro che conservare i frammenti della sua anima.
Custodire gelosamente il ricordo di colei che era stata.
E proprio perché era tale, il passato non poteva essere cambiato.
«I tuoi soliti fantasmi, Joanne?».
La ragazza non si voltò nell’udire quella voce. Sentì il tonfo leggero della porta che si chiudeva e passi che si avvicinavano. Sorrise mesta, stringendosi nelle spalle.
«Fantasmi… Già».
Samuel scivolò accanto a lei con un movimento fluido. Si sedette e lasciò che Joanne gli appoggiasse la testa sulla spalla.
«Non pensi mai al passato, Samuel? A quello che siamo stati costretti ad abbandonare?»
L’uomo non rispose subito. Sistemò un ceppo con l’attizzatoio, tenendo gli occhi fissi sulla fiamma.
«Cambierebbe qualcosa, Jo?».
La donna sorrise: era il suo modo di chiamarla, quando erano stati giovani e inesperti. «Probabilmente no. Né io né tu abbiamo avuto possibilità di scelta. Lui… ci ha preso e basta».
«Nessuno di noi… né Zach, o Ester, o Lizzie ha avuto la possibilità di rifiutare. Siamo stati cambiati, soffrendo per ciò che abbiamo perduto. Per lungo tempo l’ho odiato per ciò che mi aveva fatto… Poi ho capito che non poteva essere altrimenti, che l’unico modo per sopravvivere era rinunciare a me stesso… e che questo era il mio destino».
Joanne scosse la testa, incerta. Colui che aveva distrutto le loro vite era ormai polvere da un secolo, eppure non riusciva a dimenticare la rabbia, la paura e l’angoscia che aveva provato. Non riusciva nemmeno a pronunciare il suo nome o chiamarlo con il titolo che gli spettava: Padre. Quell’essere li aveva strappati alle loro vite, li aveva catapultati in un’esistenza fatta di buio che non conoscevano, cui avevano dovuto aggrapparsi per sopravvivere.
O la morte… o “quella” esistenza.
Samuel, no. Da quando era divenuto il loro Padre, aveva agito in maniera opposta. Sapeva qual era la cosa più importante che possiede un uomo: la libertà di scegliere il proprio destino.
«Tu hai chiesto a Will e John. E anche Oliver, a suo modo, ha scelto di seguirti. Non hai agito come… lui».
Samuel scosse la testa. «Hai detto bene: loro hanno scelto. Hanno cambiato la loro natura e, per questo, non hanno ripensamenti o dubbi».
«Grazie a te».
Lui sorrise, quasi una smorfia. «Sentivo che era giusto».
Si scambiarono uno sguardo fugace: un’occhiata fatta di complicità, di ironia e amarezza, che non aveva nulla a che fare con il sesso o l’amicizia. Era affinità. Come guardarsi in uno specchio.
Joanne tornò ad appoggiare il capo sulla spalla di Samuel parlando con voce sommessa.
«A volte, mi piace essere ciò che sono: sento la forza del mio ruolo e ne sono fiera. So di cosa sono capace. Altre volte invece, non riesco a credere di essere diventata… questo. In certi momenti, mi sento stanca di dover affrontare una vita fatta di segreti e di buio. Vorrei tornare a essere solo Joanne Moore di Galashiel. Joanne… e basta».
Samuel chinò il capo, scrutandola per alcuni istanti. Sul viso, un’ombra di compatimento.
«Non è possibile. Non lo sarà mai più, per nessuno di noi» mormorò atono, lo sguardo perso nelle fiamme. «A noi è stato concesso più di quanto gli altri esseri umani possano immaginare. Siamo riusciti a resistere senza impazzire, senza lasciarci morire di dolore. Siamo sopravvissuti perché abbiamo la forza e la volontà per essere ciò che siamo».
E si voltò. I suoi occhi, all’improvviso, avevano una luce selvaggia, quasi compiaciuta.
«Caccia via i tuoi fantasmi, Joanne. Non permettere loro di schiacciarti o ti indeboliranno fino a distruggerti. Non voglio che accada: tu sei troppo importante per me e per tutti noi». Sorrise, sfiorandole il viso con il suo. «Sei la mia sorella prediletta: godi del potere che hai e vivi la tua condizione senza nostalgie inutili».
Joanne si raddrizzò, coprendosi il viso con le mani, come per lavare via i dubbi che la stavano corrodendo. Le parole di Samuel le entrarono nella testa lentamente, disperdendo rabbia e rimpianti. Lui aveva ragione: non poteva permettere al passato di interferire con il presente e con il futuro. Quello era ancora da scrivere e poteva essere cambiato.
«In questo momento è il mio capo a parlare o mio fratello?», chiese, con un’occhiata in tralice.
«Tuo fratello», rispose lui, e si volse a fissarla. La luce di compiacimento era stata sostituita nei suoi occhi da qualcos’altro: si erano fatti duri come zaffiri freddi e un’ombra di arroganza nuotava nel suo sguardo blu. Con uno scatto si alzò in piedi e le tese la mano.
«Vieni con me».
«Adesso?» chiese lei, spalancando gli occhi per la sorpresa, indicando la sua vestaglia.
«Subito».
Aprì la bocca per rifiutare ma non riuscì a farlo: l’invito era troppo eccitante. Era notte fonda e non usciva a caccia da più di tre sere.
Un brivido le percorse la schiena, ben più gelido del freddo che aveva provato poco prima. Samuel le venne dietro: sciolse il nastro che teneva legata la veste da camera e la sfilò giù lungo le braccia nude, delicato come un amante. Le prese la mano, tirandola verso la finestra. «Passeremo dai tetti: non voglio rischiare una doccia puzzolente».
Joanne rise. Una risata liberatoria, vitale. «Ci prenderanno per fantasmi!».
Samuel aprì la finestra, guardandosi attorno. «Meglio, non credi? Edimburgo è piena di fantasmi!». Si affacciò su un piccolo cortile, lo stesso su cui si dava il suo studio privato. «E poi, siamo più simili ai fantasmi che agli umani» considerò con un’alzata di sopracciglia sarcastica. Scivolò fuori con un solo movimento e sparì.
Joanne spense la candela accanto al letto, poi corse alla finestra e scavalcò con le lunghe gambe agili il davanzale. L’angoscia si era dissolta come vapore, assumendo i contorni sfumati di un pensiero fastidioso. Samuel l’attendeva, aggrappato alle pietre sporgenti sulla parete.
Una scarica di energia simile a una frustata le corse sottopelle. Fu un brivido sconvolgente che le causò una vertigine: era lì, su un muro a numerosi piedi d’altezza, e stava sfidando qualunque legge della natura. Era viva mentre tutto ciò che apparteneva al suo passato era morto.
Cenere.
«Allora? Dove mi porterai?» domandò a Samuel seguendolo su per il tetto. La camicia da notte si sollevò attorno alle gambe e il vento gelido, con una folata improvvisa, le scompigliò i capelli che mulinarono attorno al viso.
Samuel le indirizzò un sorriso malizioso, scintillante nel buio. «Voglio dare un’occhiata a una  ragazzina».
«Avrei dovuto immaginarlo» commentò Joanne sarcastica. 
Samuel ridacchiò. «Sai che amo il sangue giovane».
E infine arrivarono sul tetto.
Eccola lì Edimburgo, ai loro piedi. Tutto il Royal Mile, dal castello a Holyrood, dai Salisbury crags fino alle nuove case al nord. Bellissima e sporca, sovraffollata fino all’eccesso, buia, puzzolente, eppure splendida. Regale.
I tetti di ardesia risplendevano come piombo lucido sotto le stelle. Alcune nuvole invadevano il cielo da nord con una promessa di pioggia per il mattino seguente. Le lanterne delle ronde notturne spezzavano l’oscurità, dondolando al ritmo dei passi; il vento che spazzava la strada, produceva un suono lamentoso, fischiando tra i vicoli. E poi ancora voci, suoni, vita che si mescolava sotto di loro, trasformavano in sussurri udibili a malapena.
«Non è splendida?», sussurrò Samuel a Joanne, con tono reverenziale, in equilibrio sul tetto, con l’orgoglio negli occhi.
Lei sapeva quanto amasse Edimburgo. La sua espressione compiaciuta le strappò un sorriso, mentre ricambiava la stretta. «Sì. Ed è tua».
Le passò un braccio attorno alla vita e la strinse a sé. Il volto dell’uomo divenne serio di colpo. «Sì. Mia, e tua, e dei tuoi fratelli. E’ nostra».
Socchiuse gli occhi, guardando verso il basso, mentre il vento gli scostava i capelli dalla fronte.
Un intero mondo ai suoi piedi, fatto di vita, morte, miseria, fame, dolore, ricchezza, potere. Di segreti e sangue.
Era la sua città, quella, da quasi centosessanta anni. Il suo dominio.
Il loro territorio di caccia.
«È nostra, Joanne», ripeté, duro. «È la mia casa… e non permetterò a nessuno di portarmela via».