So che già molte di voi hanno letto il passo di Auld Reekie e che lo avete trovato interessante.
Adesso voglio presentarvi Samuel insieme a Marianne, la donna che lui ama, da cui avrà una figlia. E' una storia narrata direttamente da Samuel: sua è la voce che ascolterete, sue sone le emozioni che pulsano in queste parole.
No, nulla a che fare con Twilight, o meglio Breaking Dawn, tranquilli: la Mayer è sacra, e i miei personaggi hanno in comune con i suoi solo la loro condizione vampirica. Se vorrete e se avrò fortuna, saprete di Emily e di Oliver.
Intanto... leggete pure questo.
Siamo ad Edimburgo, nel 1971: Samuel ha incontrato questa ragazza, Marianne, una sbandata e, ovviamente, la tentazione più forte è quella di ucciderla, assecondando la sua natura. Tuttavia, qualcosa glielo impedisce: la ragazzina è disperata, scappata di casa e il suo atteggiamento di rassegnazione lo colpisce talmente tanto che decide di risparmiarle la vita e tenerla con sè.
Il breve passo che leggerete riguarda proprio questo momento della storia: le sue incertezze, i suoi dubbi e insieme la fiducia di Marianne, una creatura priva di difese, che non aspetta altro che morire per sfuggire alla sofferenza che si porta dentro, dovuta a violenze di ogni genere.
Samuel non è buono. Non è gentile, non è generoso, non è tormentato dall'orrore della sua condizione. E' soddisfatto, felice della sua natura e del potere di vita e di morte che possiede; eppure, sarà il destino ad insegnargli che la vita eterna può essere un fardello difficile da sopportare senza la donna che ha cambiato la sua lunghissima esistenza..
ps: piccola precisazione. La figlia cui si accenna nel passo è Jodine, una delle figlie di sangue, che lui ha creato.
Buona lettura!
La palazzina al numero dodici di Moray Place è collegata, con un piccolo corridoio posto a piano terra, all’edificio accanto, il numero undici. Ufficialmente è sfitto, e tale rimarrà. In realtà, è la casa di quasi tutti i miei figli.
Solo Oliver, Will e Alyssa abitano al numero dodici, al primo piano. Ci sono tre ampie stanze, che ognuno ha potuto organizzare a proprio gusto. Ho ritenuto opportuno che ciascuno di loro avesse uno spazio proprio, personale. Io occupo tutto il secondo piano: ho bisogno dei miei spazi e essere il Master giustifica determinati privilegi.
Passiamo molto tempo in gruppo ma, nello stesso tempo, è utile avere un rifugio nostro: non dormiamo, non abbiamo bisogno di cucinare, tecnicamente non avremmo bisogno del bagno, se non per lavarci. Le nostre stanze, perciò, rappresentano il nostro universo privato.
La stanza di Jodine è al primo piano del numero undici. Le due ragazze rimasero a lungo, là. Quando rientrai nella mia camera, a notte inoltrata, mi accorsi subito che Marianne era diversa: sembrava una pianta che avesse preso sole dopo un’infinità di tempo. Era un po’ più colorita, il viso più disteso, anche se i suoi occhi restavano sempre spenti, rassegnati.
Mi venne incontro a passi leggeri, con un sorriso. Già questo bastò a stupirmi: era la prima umana che mi raggiungeva di sua spontanea volontà da anni. Di solito, le donne umane vengono da me spinte dalla naturale attrazione che quelli della mia specie esercitano: è una capacità insita nella nostra natura, di cui tutti noi siamo dotati e che ci aiuta nella caccia, insieme alle nostre doti mimetiche e di dissimulazione. Attiriamo gli umani che scegliamo per nutrirci, ma nessuno di loro sarebbe in grado di ricordare il nostro viso.
Ma lei, no. Mi parlava, mi stava vicino senza paura.
Aveva addosso degli abiti che mia figlia le aveva prestato, una gonna corta e un maglione. Soprattutto, mi disse, aveva mangiato carne e patatine che le aveva portato Alyssa.
Ciò che mi colpì, una volta di più, fu la naturalità con cui accettava la nostra natura: chiunque altra si sarebbe messa a urlare. Mi raccontò del pomeriggio che aveva trascorso e di come avesse trovato strano poter parlare con altre ragazze: a Nairn, spiegò, le sue compagne di scuola la scansavano come un’appestata e lei ben presto aveva smesso di andarci.
Mi parlava piano, sottovoce, con quel suo accento appena strascicato. Spiava il mio viso, stando attenta a non disturbarmi, mentre mi muovevo per la stanza, al buio.
Alla fine, ci stendemmo sul letto e lei, con una dolcezza che mi fece male al cuore, si abbassò il colletto del maglione, scoprendosi la gola.
“No, Marianne.” Le tolsi la mano dal collo e gliela riposi in grembo.
Lei mi guardò disorientata.
“Non voglio farti male. Ti sei indebolita molto, in questi giorni. Inoltre”, spiegai, sfiorandole la ferita sul collo “ti ho lasciato un brutto segno.”
Lei chinò il capo, dispiaciuta. “Ti sono solo d’impiccio, allora” mormorò.
Il suo viso deluso mi strappò un sorriso. “Piccola sciocca. Ho piacere della tua compagnia.”
Sgranò gli occhi, sorpresa. “Davvero? Sono solo una ragazzina…”
“Sei una persona interessante, Marianne, e non sto mentendo. Non frequento molto i vivi, di solito li trovo piuttosto… patetici ma tu sei un’eccezione. In verità, tu sei la prima di molte eccezioni, da molto tempo” confessai.
Ancora una volta, fece uno di quei gesti che mi turbavano profondamente: mi abbracciò. Io non potei fare altro che stringerla, dopo pochi secondi, e sentire il suo cuore contro il mio petto, il suo respiro tiepido sul braccio.
“Ma perché non hai paura di me?” le chiesi, d’un soffio. Era questo il vero mistero, per me.
Lei alzò i suoi immensi occhi verdi, sinceri, ingenui. “Tu sei gentile, ma non con le parole. Hai gesti dolci, mi parli come a una persona. Non posso avere paura di te, non ci riesco.”
Spalancai gli occhi: c’era davvero qualcosa di anormale in quella storia, ma tra noi due non sapevo chi fosse il più sorprendente.
Si era rannicchiata di nuovo vicino a me, come la notte precedente, con la testa a metà tra la mia spalla e il petto. Mi guardava da sotto in su, con lo sguardo pieno di una fiducia che non avevo mai pensato di meritare.
“Lo so che potresti uccidermi in ogni istante e se accadesse, se fossi tu a farlo, ne sarei felice perché saresti l’ultima cosa bella che vedrei. Sei bello come gli angeli che erano in chiesa.”
Invece, mi resi conto io, guardandola negli occhi, lei era la prima cosa pulita che incontravo da tantissimo tempo. Era come una gemma grezza avvolta nella pietra.
“E tu sei la prima persona mi stupisce da molti, molti anni” le risposi.
Si limitò a sfiorarmi il viso con una carezza. Poi, lentamente la sentii scivolare nel sonno, mentre il mio corpo si scaldava attraverso il suo, mentre ascoltavo il suo respiro, ritmico e regolare.
Mentre mi sentivo in pace, come non mi accadeva da tempo.