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giovedì 10 marzo 2011

Auld Reekie #8

Capitolo 8


«Buongiorno, Margareth.»
La voce quieta di Joanne risuonò nella sala da pranzo piena di una luce mattutina pigra. Entrò e chiuse la porta alle spalle della domestica, lanciando uno sguardo penetrante ai suoi fratelli.
«Finalmente sei arrivata! Quella dannata vecchia non la smetteva di ronzare qui attorno». Ester respinse il piatto di pancetta che si trovava dinanzi. «Cielo, questa roba mi nausea! Ma è proprio necessario fingere di mangiare?»
Joanne le rispose con pazienza, prendendo un piatto con delle uova dal servo muto. «Non piace a nessuno di noi, Ester, ma non abbiamo alternative. La Fratellanza è alle nostre calcagna e non possiamo permettere che la servitù inizi a sospettare qualcosa.»
Mise il piatto dinanzi a sé e rimestò il cibo con le posate; poi sollevò lo sguardo su Samuel, che leggeva il giornale.
«Che cosa pensi di fare?» domandò, a voce bassa.
Nella stanza cadde il silenzio.
Samuel le rispose senza guardarla, continuando a leggere lo Scotsman. Dinanzi a lui, un piatto di salsicce giaceva intonso, assieme ad una tazza di thè. «Sto portando a termine la cessione dell’impresa con Oliver. Le ragazze, Will e John partiranno entro questa settimana; io e te, la prossima. Annunceremo la nostra intenzione di fare un viaggio in Europa, per climi più caldi. Oliver rimarrà qui, assieme a Zach.» La scrutò, gli occhi piantati nei suoi, fissandola senza battere ciglio. «Spero per te non sia un problema.»
Joanne abbassò lo sguardo sul piatto. Per un momento ebbe voglia di urlare che sì, era un dannato problema. Ma non poteva: Samuel era il suo capo, prima ancora di essere suo fratello di sangue. Lei, Ester, Lizzie, Zach e Samuel avevano avuto lo stesso padre: lo stesso vampiro li aveva trasformati. Samuel era il più anziano tra tutti loro e aveva preso il comando quando Robert, il loro Padre, aveva cessato di esistere molti decenni prima.
Will, John, Oliver, invece, erano stati creati da Samuel. A differenza di Robert, lui aveva offerto la possibilità di scegliere: aveva dato loro la libertà di accettare o meno la via del sangue, cosa che Joanne reputava sacrosanta.
Quanto a lei, aveva un compito specifico: era la Guardiana. Le era stata affidata la tutela dei suoi fratelli;sarebbe stata lei a sostituire Samuel, nel caso in cui fosse perito.
Lui le lanciò un’occhiata obliqua; poi tornò a immergersi nella lettura. «Zach verrà stasera: sta tenendo d’occhio la casa di Dyce. Will gli darà il cambio stanotte.»
«Ha trovato qualcosa?», chiese Joanne, allontanando il piatto con un gesto secco: Ester aveva ragione, l’odore del cibo era nauseante.
«Poco: lettere di Corbridge e di Faber, nulla che già non sapessimo. Purtroppo, non vi era nessun elenco riguardo ad altri contatti qui in città.» Samuel richiuse il giornale con un gesto secco, persino nervoso. «Stanno progettando un’offensiva contro di noi. È questione di tempo.»
«Quanto pensi che sappiano?», domandò Lizzie, inquieta.
«Molto, temo. Tellman, il responsabile della Fratellanza di Londra ha una missiva di Oliver e una mia lettera indirizzata a Sirius: entrambe sono dirette a quest’indirizzo: Zach ha letto gli appunti di Dyce.»
Joanne sgranò gli occhi. «Ma… sono lettere di sessantanni fa!»
Samuel aprì le braccia, stizzito. «Già! Le hanno conservate, accidenti a loro! Appena realizzeranno il collegamento tra gli autori delle missive e noi, ci avranno scoperti. L’unica cosa da fare è anticipare la partenza.»
Joanne picchettò con le dita sul tavolo, poi annuì con energia. «Dobbiamo agire tenendo un comportamento il più possibile usuale. Per fortuna, è nuvoloso e non avremo problemi con il sole. Preleveremo delle somme di denaro per ogni esigenza. Limiteremo le uscite notturne; saremo sempre in coppia o più, mai da soli. Resteremo solo io e te; Zach rimarrà in incognito e Oliver dovrebbe essere al riparo dai sospetti, visto che è ricomparso da meno di tre anni e che non vive con noi.»
«Molto bene. Comunica queste disposizioni agli altri e…».
Samuel spalancò gli occhi, lanciando uno sguardo alla porta. Un istante dopo, qualcuno bussò e di colpo, tutti finsero di mangiare. Persino Ester arricciò il naso e accostò la tazza di the alle labbra.
«Il vostro segretario, padrone», annunciò la governante.
Will entrò, chiudendo la porta alle spalle. Il suo sorriso aveva un che di furbo e di malizioso, quella mattina. «Buongiorno signori. Sappiate che da qui a tre minuti diluvierà, quindi è il momento adatto per uscire. Sarà nuvoloso per tutto il giorno.»
«Volete una tazza di caffè, signor Munro?». Joanne aveva parlato con voce rilassata, ma con gli occhi fissi alla porta. Quell’impicciona della governante stava origliando di nuovo.
Will si voltò a fissare la porta chiusa e ridacchiò. «Sì, grazie, signora Griffin. Sapete, stanotte abbiamo fatto tardi con il signor Hates Hates.»
Passi furtivi, umani, si allontanarono lungo il corridoio. Piatti e bicchieri tornarono sul tavolo.
Ester rise: John era rientrato alle cinque del mattino, con addosso l’odore di una femmina umana. Lizzie si limitò a scuotere il capo, contrariata. «Non dovreste passare la notte in giro da soli, con tutto quello che sta succedendo», considerò la ragazza a bassa voce, tenendo gli occhi fissi sulla porta. «Potrebbero attaccarvi.»
Will prese una tazza, la riempì di caffè e si sedette a tavola. Il suo buonumore non era stato scalfito dalla tensione che si sentiva nella stanza. Si strinse nelle spalle. «I Fratelli della luce? Che possano farsi fottere all’inferno!».
Samuel alzò gli occhi. Erano glaciali.«Ci sono delle signore in questa stanza, Will. Non gradisco che tu ti esprima in questo modo.» 
Nella stanza calò un silenzio imbarazzato. Samuel si alzò in piedi e li fissò, uno a uno. «Non stiamo scherzando. Lo ripeto: la nostra salvezza dipende da quanto riusciremo a essere credibili. Stiamo rischiando tutto ciò che abbiamo, il nostro mondo può andare in pezzi da un momento all’altro e noi con lui. Sei Fratelli della Luce ci scoprono, non avremo possibilità di salvarci. Avete capito? Nessuno scampo. Moriremo tutti.»

 
Il nostro mondo è in pericolo, pensò Samuel con gli occhi fissi sul selciato sporco di fango. Tutto ciò che ho costruito, i miei figli, i miei fratelli… potrei perdere ogni cosa.
Per secoli, lui e i suoi simili si erano mescolati agli umani, vivendo con loro, prendendone le abitudini, generazione in generazione. Questo era potuto accadere perché molte delle leggende sulla loro natura erano false e gli uomini ignoravano quale fosse la loro vera essenza.
Erano corpi morti. Non respiravano: l’aria non era più necessaria, simulavano solo per mimetizzarsi meglio. Il loro fisico non aveva più le caratteristiche umane: non sentivano più fatica o dolore. Non avevano più un cuore che batteva. Non potevano neanche essere uccisi da un paletto, né urlavano dinanzi a un crocifisso o all’acqua santa.
Non potevano stare alla luce del sole, era vero, ma questo non significava che non potessero uscire di giorno. L’importante era che i raggi del sole non li colpissero direttamente, altrimenti la loro pelle si sarebbe ustionata, accartocciandosi come un mucchio di foglie secche. Il fuoco li indeboliva ma non li uccideva.
C’era solo un modo per eliminarli, e su questo il mito aveva ragione: tagliare loro la testa. Purtroppo, i Fratelli della Luce lo conoscevano bene.
Avevano bisogno di sangue umano per nutrirsi. Tuttavia, disciplina e rigore avevano dato i loro frutti e adesso il numero delle loro vittime era divenuto molto basso.
Quasi, si corresse poi, con un sorriso soddisfatto. Il ricordo della notte precedente riempì la sua bocca di un sapore dolce e caldo. Si leccò le labbra e tornò a concentrarsi sul carteggio che aveva davanti: un mucchio di ricevute che dovevano essere controllate prima di liquidare la sua impresa. Gli piaceva quel lavoro: aveva posseduto attività commerciali sin dal secolo precedente e aveva scoperto di possedere talento per gli affari. In questo lo aiutava Oliver, che si occupava della gestione degli affari legali: era un avvocato molto preparato.
E non solo: era una creatura di una freddezza e di una determinazione fuori dal comune.
Mentre Will aveva mantenuto alcuni brandelli di umanità, Oliver invece, li aveva sradicati con metodica precisione. In un tempo brevissimo, aveva ottenuto quel distacco dall’umanità che gli esseri come loro ottenevano con anni di buio, di massacri e assassinii.
Era lo scotto da pagare per la loro condizione. E tuttavia, da prezzo, si trasformava in vantaggio: niente pene, niente rimpianti, niente sofferenza. Il disprezzo di tutto ciò che era umano diventava liberatorio, aiutando a vedere la vita per ciò che è: un tempo più o meno breve, affannato,pieno di illusioni in cui non esisteva uno scopo, né sicurezze se non quella della morte.
Sapeva guardare oltre la condizione umana. Sentiva il bisogno… la fame di vita e non si tirava indietro dinanzi a niente per proteggere ciò che aveva di più prezioso: l’immortalità.
Molti esseri umani non si rendevano nemmeno conto di essere al mondo: consideravano la propria vita senza fine, mentre il tempo fluiva addosso loro, senza accorgersi di invecchiare fino a morire. Non sapevano che sarebbe bastato uno schiocco di dita del destino per spezzare quell’illusione.
Samuel, invece, lo sapeva: per primo era stato vittima di quello schioccar di dita; a sua volta, il destino si era servito di lui per porre fine a delle esistenze inutili.
Senza rimorso alcuno.


Nascosto nell’ombra di un portone, Zach osservò l’entrata del numero 17 di Albany street. Sopra di lui, un cielo grigio, basso, che sembrava dovesse dissolversi in una tempesta da lì a pochi istanti.
George Dyce aveva avuto visite: tre gentiluomini. Senza dubbio, qualcosa di strano si stava preparando: era rimasto sveglio tutta la notte, inquieto, a passeggiare nel suo studio. Zach lo aveva spiato, nascosto nel buio della sala d’ingresso, ed era scivolato via poco prima dell’alba, quando la sguattera di cucina si era alzata per accendere il fuoco. Sorvegliava quella residenza da giorni, la conosceva bene e ormai entrava ed usciva a suo piacimento.
Zach Shaw sapeva forzare le serrature, sbloccare fermi e chiavistelli; era silenzioso e leggero, un soffio di vento. Lui era la spia nel loro gruppo, ombra tra le ombre. Era colui che non esisteva.
Iniziò a piovere. Zach sentì delle gocce bagnargli il collo sotto la falda del cappello. In pochi istanti, la pioggia aumentò d’intensità, e lui capì che quello era il momento adatto per avvicinarsi alla casa per sbirciare all’interno.
Mescolandosi ai passanti che correvano per trovare riparo, si avvicinò all’abitazione di Dyce e si nascose dietro un anfratto dinanzi all’ingresso. Da lì, attraverso il velo spesso della pioggia battente, riuscì a vedere i tre uomini che parlavano con il medico. In quel momento qualcun tirò via le tende dalla finestra, forse per ottenere più luce e Zach si accorse che non erano soli: altri uomini erano nella stanza assieme a loro.
Chi accidenti erano quei due?
Con una mano sul cappello, Zach allungò il collo. Tutti gli uomini erano chini su un tavolo, coperto di carte e mappe della città. Uno di loro gesticolava, gli altri annuivano. Dyce, un po’ più distante, seguiva con lo sguardo la discussione. Aveva l’aria angosciata e scuoteva il capo.
D’improvviso, uno di loro alzò la testa di scatto e si voltò verso il padrone di casa che annuì, con energia. L’altro rise e un secondo uomo si alzò per bere un bicchiere di vino, dopo aver indicato dei punti su un foglio.
Per la prima volta dopo più di un secolo, Zach sentì un brivido. Non era eccitazione o di desiderio. Con fatica, quasi con stupore si rese conto che era un’emozione stridente, improvvisa, che lo sconvolse fino a fargli spalancare gli occhi. Perché aveva avuto paura.
Aveva riconosciuto quegli uomini, ne aveva visto i ritratti molte volte.
Michael Burgess e Spencer Corbridge.
I capi della Fratellanza della Luce.

venerdì 19 novembre 2010

Auld Reekie #6

Non si può andare contro il proprio destino.
Il cerchio si stringe.




6


Edimburgo

George Dyce camminò a lungo. La sua mente non era in grado di ricordare la strada di casa: si lasciò spintonare dai passanti, mettendo i piedi in mezzo ai liquami, gli occhi fissi nel vuoto, mentre i passanti gli scoccavano sguardi pieni di commiserazione.
Solo quando raggiunse Calton Road riuscì a recuperare un po’ di lucidità. Si fermò appoggiandosi al muro e si costrinse a respirare profondamente per calmarsi; poi guardò attorno a sé, accorgendosi per la prima volta di dove si trovasse. Arrivato ad Albany street, aveva recuperato il completo controllo.
Salì in fretta i gradini della bella palazzina georgiana, come se volesse fuggire dalla strada. Le voci petulanti delle sue figlie di sedici e diciotto anni lo raggiunsero, rassicurandolo, quasi confortandolo: discutevano per qualcosa che aveva a che fare con dei cappellini. Era bello essere a casa, pensò avviandosi verso il piano superiore.
«Dottore?». La voce ansiosa della governante lo raggiunse a metà delle scale.
«Dica, Emmeline», sospirò esasperato, sfilandosi i guanti.
«Siete atteso, signore».
«Visite?», grugnì. Era contrariato, stanco e desiderava solo riposare per tutto il pomeriggio.
«Sì, signore. Due gentiluomini da Londra». Gli porse due biglietti da visita.
Dyce sobbalzò. Burgess e Corbridge? Qui?
«Dove sono?» chiese, scendendo a precipizio i gradini.
«Nel salottino con vostra moglie».
Entrò nel salone a passi rapidi. Sua moglie lo squadrò con i grandi occhi castani spalancati e uno sguardo equamente diviso tra perplessità e spavento. Matronale e dignitosa, era rimasta senza parole dinanzi all’irruzione improvvisa, senza capire perché suo marito fosse tanto pallido. Muriel Dyce, donnetta prosaica e priva di immaginazione, non poteva immaginare chi fossero davvero quegli amici di suo marito.
Perché Michael Burgess e Spencer Corbridge non erano solo compagni di vecchia data di George Dyce. Erano i capi della Fratellanza della Luce.
Il medico congedò la moglie con un sorriso di circostanza e invitò i due amici a sedersi con lui al tavolo. Compagni di bagordi nell’età dell’università, avevano cementato la loro amicizia circa vent’anni addietro, quando si erano scontrati con l’impossibile.
«Quando siete arrivati?».
A rispondere fu Corbridge. Alto e sottile, viso allungato di un pallore quasi grigiastro, occhi scuri, piccoli baffetti; non sembrava essere molto forte, anzi. Tra i quaranta e cinquant’anni, medico come Dyce, esercitava a Londra e godeva di ottima fama. Era una delle persone verso cui George nutriva maggior stima… e timore. Bastava fissare quegli occhi di ghiaietto per capire che era un uomo da non prendere sottogamba.
«Ieri sera tardi. Siamo stati a Newcastle, poi abbiamo pensato di venire a dare un’occhiata fin quassù».
«Bene. Perché… pensavo di scrivervi. Credo di aver trovato… degli indizi che riportano a ciò che avete trovato a Londra». George si versò un bicchiere generoso di brandy e lo bevve a larghi sorsi. Di solito, non beveva tanto, ma quel giorno tutto il mondo sembrava aver deciso di andare per conto suo senza chiedere il permesso.
«Ti riferisci alla mia lettera?» domandò Michael Burgess, appollaiandosi sul bracciolo della poltrona occupata da Dyce. Capelli color sabbia, muscoloso quanto poteva esserlo un ex campione di canottaggio di Cambridge, occhi verdi pungenti, carnagione chiara, aveva la stessa età di George Dyce. Con lui il tempo era stato indulgente: fascinoso, scapolo impenitente e notaio presso St. Albans, aveva un’espressione indolente che dissimulava una capacità di osservazione fuori dal comune. Aveva anche una leggera zoppia, conseguenza di una fuga precipitosa sui tetti di Londra, mentre era in caccia di uno dei suoi nemici.
«Esatto. Ho trovato una coincidenza tra ciò che tu mi avevi scritto e le notizie che mi ha comunicato James Faber da York. Si tratta di una lettera». Dyce parlò in fretta, sottovoce, lo sguardo che saettava dall’uno all’altro.
Burgess strinse gli occhi, curioso «Faber? Il nostro Fratello osservatore di York? E cosa è accaduto?».
«Pochi giorni fa, i Fratelli dello Yorkshire hanno trovato uno di quei mostri, l’hanno catturato ed eliminato. Portava con sé della corrispondenza: sembra fosse un corriere o qualcosa del genere. Non ne avete saputo nulla?».
«No. Siamo lontani da Londra da parecchio e non abbiamo avuto comunicazioni recenti da York», rispose Burgess, disorientato. Corbridge ebbe una smorfia perplessa.
D’improvviso, Dyce si rilassò nella poltrona con un sospiro pesante. «Allora credo che ci aspetti un lungo pomeriggio. Ho molte notizie da darvi».
Corbridge si accomodò su una panca di fronte agli altri due. «Procediamo con ordine, George. Faber ti ha scritto che quell’essere immondo portava delle lettere. Per chi?».
«Si tratta di una missiva indirizzata al Master delle Highlands. L’indirizzo è Edimburgo, Canongate, 15».
George fece una pausa per riprendere fiato. Sfilò gli occhiali, mentre le ipotesi nebulose che gli affollavano il cervello assumevano contorni nitidi. E lo spaventavano, sempre più.
«Ieri è arrivata una lettera da Richard Tellman, il vostro sostituto a Londra. Mi ha scritto che nella cassaforte che avete trovato il mese scorso nel covo distrutto, c’erano delle lettere tra il capo della comunità londinese e altri Masters. Due di queste provenivano da Edimburgo».
Burgess alzò le sopracciglia, stupefatto «Davvero? Siamo partiti dopo aver distrutto il rifugio di Londra e non abbiamo avuto il tempo di visionare i documenti».
George mosse le mani per bloccarlo. «Ascolta: le lettere provenienti da Edimburgo sono datate 1782, dunque hanno più di cinquant’anni. Una di queste è la comunicazione dell’acquisizione di una quota di proprietà una società di commercio. La transazione era stata curata da un avvocato, tale O. W. G. L’altra, una missiva privata, è a firma di un tale S. Per entrambe l’indirizzo era Canongate 15».
Con un sospiro spezzato, Spencer Corbridge si appoggiò con la schiena contro il muro. «Coincidenza a dir poco sospetta», commentò asciutto.
Dyce lanciò un lungo sguardo ai due: la frizzante sensazione di trionfo che avvertiva si mescolò a una paura latente che gli serpeggiava nell’anima, ai margini della coscienza. Continuò a raccontare.
«Non è ancora finita: alcuni giorni fa un uomo ha chiesto un consulto per sua moglie, poiché teme sia sterile. Si chiama Griffin, si è trasferito in città dal nord della Scozia circa dieci anni fa. Da quello stesso periodo, abitano con loro dei cugini della moglie: due donne e un uomo per l’esattezza. Non ho fatto caso subito all’indirizzo ma quando ieri ho ricevuto la lettera di Richard Tellman, ho fatto un salto sulla sedia».
«Fammi indovinare: il numero 15 di Canongate?». Burgess tirò fuori dalla tasca della giacca un astuccio portasigari e iniziò a fumare. George annuì in silenzio, poi si coprì il volto con le mani. Non sapeva come spiegare quello stato di malessere che l’aveva sconvolto, sin da quando era andato via dalla casa dei Griffin.
Proseguì, stanco, con gli occhi fissi sul pavimento. Le parole erano diventate difficili da pronunciare «Così ho pensato di approfittare della richiesta per dare un’occhiata, tentare di capire se potessero essere davvero… loro. ».
Dyce bevve un altro sorso di liquore e riprese a parlare. «Pensavo di scrivere un resoconto stasera, per chiedervi di venire qui… Perché di dubbi ne ho parecchi. Stamane ho visitato la moglie di Griffin e…».
Stavolta furono Burgess e Corbridge a sussultare. «Tu hai fatto che cosa?», guaì Corbridge.
Burgess afferrò George per il braccio, costringendolo a voltarsi. «Era viva?».
Un rivolo di angoscia scivolò lungo la schiena del medico. La risposta che la sua mente gli diede fu ; tuttavia un’altra sensazione, più profonda, viscerale, lo aggredì impedendogli di rispondere subito. Un malessere difficile da spiegare, un brivido freddo di panico di cui non riusciva a liberarsi in alcun modo.
«Sì», sussurrò incerto.
Spencer Corbridge lo fissò, studiandolo in silenzio. I suoi occhi brillavano come pietre bagnate in fondo a una scodella. «Potrebbe essere una schiava umana: a Cardiff ne abbiamo trovate due». Poi tornò a studiare il volto di George: pareva invecchiato di colpo. «Sei assolutamente sicuro che fosse viva?».
«Credo di sì», ammise George infine. Sospirò pesantemente. «Con questa visita non ho fatto altro che complicarmi la vita… ho così tanti dubbi!».
«Perché?», lo incalzò Michael.
«Le due donne che io ho conosciuto non sono diverse da mia moglie o dalle figlie. Vestono allo stesso modo, parlano come loro. Non hanno nulla di diverso, a parte il pallore e la bellezza>>.
«Le loro femmine sono sempre molto belle: si tratta di strategia di caccia, dovresti saperlo», interloquì Michael, soffiando una nuvola di fumo che si dissolse con lentezza. Poi sorrise, indolente. «Ti trovo un po’ arrugginito, George: una volta non avresti avuto tutte queste incertezze».
«Li hai visti mai mangiare? Fare qualcosa di umano?», lo incalzò Spencer.
Dyce si fermò a riflettere. Scosse la testa, dubbioso. «Non sono il tipo di persone che Muriel vuole frequentare, se capite cosa intendo. Tuttavia, stamane Griffin ha bevuto davanti a me. In realtà, l’ho quasi sfidato a bere il suo Porto: non ne aveva toccato una goccia».
«La servitù?», proseguì Corbridge.
«Hanno una governante, una cuoca, una cameriera e una sguattera di cucina, che non dormono in casa; possiedono una carrozza e dei cavalli. Il fatto che abbiano della servitù per la cucina è uno dei dati che mi ha lasciato più perplesso», considerò Dyce con una smorfia.
«Potrebbero fingere di mangiare: a Londra, il loro capo aveva uno stuolo di servitori umani che non hanno mai sospettato nulla. E poi, qui a Edimburgo non è così difficile liberarsi del cibo: ho visto gettare di tutto dalle finestre», commentò Michael, sarcastico. «Dovremmo saperne di più. C’è modo di investigare su di loro senza destare sospetti?».
George fece una smorfia, dubbioso. «Sarà difficile. Notoriamente, Samuel Griffin è molto riservato e…».
Le parole gli morirono in gola, ghiacciandosi. Si portò la mano alla bocca. Samuel Griffin.
Samuel.
S., Edimburgo Canongate 15
Burgess lo fissò con occhi spalancati. «S….», bisbigliò, attonito. «S è l’iniziale di Samuel». Corbridge lasciò scorrere lo sguardo dall’uno all’altro, gelido. «Mutano il cognome, spariscono per anni, ma non rinunciano mai al loro vero nome».
George Dyce si passò la mano davanti agli occhi, quasi tentando di svegliarsi da quel sogno strampalato. Non era possibile. Era folle. Di più: irreale.
Eppure, era perfettamente logico. Tutto andava al suo posto in quel puzzle così assurdo.
Erano lì, per davvero.
Avevano trovato i vampiri di Edimburgo.

martedì 16 novembre 2010

Auld Reekie #5 - 2

Chiedo perdono. Vi ho fatto attendere più del dovuto a causa di impegni familiari e personali. Ecco qui la seconda parte del quinto capitolo... e presto, lo giuro, avrete il sesto... 



«Samuel!»
Joanne non ebbe bisogno di gridare di nuovo: Samuel ed Ester erano nel corridoio davanti a lei ed entrarono di corsa. L’uomo spalancò gli occhi, sorpreso nel vedere Dyce a terra in una strana posa scomposta, con gli occhi rovesciati e la bocca aperta.
Joanne percorse la stanza a passi veloci, la mano poggiata sulle labbra con un gesto nervoso «Sa di noi!».
«Ne sei certa?». Samuel la raggiunse e le mise le mani sulle spalle bloccandola.
«Aveva paura. Appena ha intuito chi ero, si è spaventato a morte. Dopo averlo condizionato, on ho nemmeno dovuto scavare a fondo nella sua mente».
«Lo hai privato della coscienza», considerò Ester, chinandosi sull’uomo. Tastò con delicatezza la gola del medico e controllò gli occhi. «Si riprenderà tra un po’. Per allora, faremmo bene a trovare una storia convincente».
«Ha accettato di venire perché aveva già dei sospetti?» chiese Samuel, fissando con una smorfia carica di disprezzo il medico riverso a terra. Era patetico in maniera imbarazzante.
«Purtroppo, sì».
Samuel scosse la testa, il viso angelico segnato da una ruga di preoccupazione. «SI Fratelli della Luce sapevano che gli attacchi a Londra e York avrebbero messo in allarme le altre comunità. Hanno attivato gli osservatori in tutta la nazione, sperando in un passo falso, così come noi abbiamo tentato di anticipare le loro mosse.... E dannazione, ci hanno trovato!» esclamò con rabbia.
Si avvicinò alla finestra. Fuori, il cielo era coperto da nubi scure, gravide di pioggia.
Ancora pochi giorni e sarebbero stati braccati.
Samuel si voltò di scatto, avvicinandosi al medico. «C’è solo una cosa da fare: interverrò sulla memoria di Dyce, cancellerò via i sospetti e guadagneremo il tempo necessario per organizzare la nostra scomparsa».
Joanne lo guardò in tralice per un istante, poi annuì. «È meglio che ci pensi io: i suoi ricordi dovranno essere realistici. Dubito che tu sappia come si svolge una visita medica su una donna».
Samuel assentì con un sorriso abbozzato, poi si avvicinò, baciandola sulla fronte. «Sei stata eccezionale. In poche avrebbero avuto la freddezza di condizionare un uomo senza poi saltargli alla gola».
Joanne si strinse nelle spalle. « Non è stato difficile. È solo un umano, stolto e pieno di sé. ».
«Cancella tutto ciò che riguarda i suoi sospetti. Non deve ricordare nulla».
Joanne annuì senza parlare. Poi, rimasta sola, sollevò gli occhi verso il soffitto e scosse la testa con un sospiro pesante.
Era molto, molto peggio di quanto avesse immaginato.


George Dyce si trovò seduto al tavolino da toilette della camera da letto della signora Griffin. Davanti a lui, carta e un calamaio. Teneva in mano una penna.
Perché? Cosa doveva fare?
Sentì la testa confusa, come se dentro vi si fosse rifugiato un intero sciame d’api. Dietro di sé, Joanne Griffin stava terminando di rassettarsi. Le lanciò un sorriso imbarazzato attraverso lo specchio e tornò a concentrarsi sul foglio, guardando la penna.
Era disorientato.
La visita… sì. Ecco di cosa doveva scrivere!
La donna non presentava alcun problema: battito regolare, respirazione libera, il fisico sottile ma forte abbastanza da poter sopportare una gravidanza. Anche l’apparato riproduttore era sano, prima facie. Se non concepiva, il problema doveva essere nel suo ventre: forse il sangue non era abbastanza forte o forse era sterile ab origine. O ancora, era il marito a esserlo.
Le sue riflessioni furono interrotte da un tocco discreto.
«Avete terminato?». Ester Hates si affacciò dalla porta. Un ricciolo di capelli castani scivolò sul viso, accarezzandole le labbra.
«Sì».
La ragazza, quasi fluttuando, entrò nella stanza e si avvicinò alla cugina, prendendole la mano.
Era possibile che fossero…? No, si disse il medico. Scosse la testa, continuando a scrivere: in quella donna non vi era nulla che non andasse, nulla che potesse far pensare a lei come a un…
Ester si avvicinò al medico senza far rumore. Sorrise, timida, a occhi bassi; poi, alzò di colpo lo sguardo: profondo, intenso, tanto da causargli un capogiro. All’uomo mancò il fiato sembrò quasi di annegare in quegli occhi così simili a gemme di venturina
«Il signor Griffin la aspetta in sala da pranzo. Posso accompagnarla io mentre mia cugina termina di rivestirsi?» proseguì, in tono flautato.
Certo. Poteva accompagnarlo in capo al mondo se voleva.
Rimasta sola, Joanne si lasciò cadere su letto. Confondere i ricordi di quell’uomo era stato semplice: era intelligente ma non aveva una mente complessa. Sovrapporre idee e immagini per manipolarne la memoria era stato semplice.
Più doloroso era stato ricreare le sensazioni, i suoni, il calore di un corpo umano e vivo. Aveva dovuto ricordarli lei per prima. Farlo, però, le aveva causato un rimpianto amaro che le mordeva il petto.
Il contatto di mani calde sul corpo, in punti intimi, il tepore del respiro soffiato fuori dalle labbra, il suono del suo cuore, cupo, profondo e regolare, fino a che aveva funzionato… Ricordare la sensazione della vita che scorreva nelle vene era stato penoso.
Si sentì malinconica, vuota.
Sola.


Il sole era riuscito a sconfiggere l’assedio delle nuvole e adesso illuminava i mobili lucidi della sala da pranzo di Canongate; la finestra era chiusa e i rumori del traffico giungevano attutiti.
Un angolo della stanza era immerso nell’oscurità creata dalla tenda che schermava la finestra. Quasi celato da quell’ombra, Samuel sollevò lo sguardo su George Dyce seduto al lato opposto del tavolo, in piena luce.
«Dunque mia moglie non ha problemi, almeno all’apparenza».
«Già… Ritengo probabile che la vostra signora possa avere un ostacolo nelle profondità del  ventre, qualcosa che le impedisca persino di iniziare una gravidanza. Sarebbe utile una visita approfondita di una donna, una levatrice».
Il medico si mosse a disagio sulla sedia, poi chinò gli occhi sul bicchiere pieno di liquore che teneva tra le dita. Appena giunto nella stanza, Griffin gli aveva offerto un bicchiere di Porto che ora scintillava davanti a lui, producendo riflessi simili a rubini liquidi. Non c‘era nulla da dire, era un vino squisito. Allora, come mai non ne stava bevendo neanche una goccia?
Di nuovo, un sospetto incerto, nebuloso, si affacciò alla sua mente. Se aveva ragione, si trovava dinanzi a… qualcuno molto forte. Molto potente.
Dyce sollevò gli occhi. «Vostra moglie avrebbe bisogno di sole e di vita all’aria aperta per rafforzare un po’ il fisico» aggiunse, prendendo tra le dita lo stelo del bicchiere.
«L’ho trovata pallida».
«Joanne ha avuto sempre un colorito alabastrino. È una delle cose che apprezzo di più in lei». Sulle labbra di Samuel aleggiò un sorriso leggero che non arrivò agli occhi. Era rilassato, il braccio appoggiato al tavolo, la mano che sorreggeva il viso.
«Il Porto è di vostro gradimento?»
Il medico avvertì una strana sensazione nell’aria, simile a quella che avvertiva all’approssimarsi di una tempesta. Sorrise, impacciato, ma la risata suonò innaturale alle sue stesse orecchie.
«Sì, è ottimo. E voi, non bevete? ».
«Le notizie che mi avete appena dato non giustificano certo un brindisi, ma vi terrò compagnia per dovere di ospitalità».
E Griffin bevve. Un sorso, uno soltanto, accompagnato da un sorriso pigro.
«Se lo gradite, potrei inviarvene due bottiglie» disse poi in tono formale.
«Oh, vi prego… non disturbatevi», esclamò Dyce, in imbarazzo.
«Nessun disturbo. So quanto possano essere importanti certi piaceri della vita e nulla è più piacevole di un bicchiere bevuto dinanzi al fuoco in perfetta solitudine. Ne convenite, dottore?», mormorò con voce roca.
Samuel sollevò lo sguardo: azzurro, duro come lapislazzuli. Era antico e freddo, e nello stesso tempo, quasi annoiato e vigile.
George Dyce sentì un brivido lungo la schiena. «Credo che sia l’ora di congedarmi» mormorò, cercando nel panciotto l’orologio. L’ora che lesse lo fece sussultare: l’una. Era rimasto per due ore in quella casa! Com’era possibile? Non si fermava mai tanto a lungo per un controllo.
«Qualcosa non va?» chiese Samuel Griffin, accompagnandolo alla porta.
Il medico tornò a guardare l’orologio, perplesso. «Non… non pensavo di aver fatto così tardi» rispose confuso. Non poteva aver perso tanto tempo, era assurdo, era…
Dyce alzò gli occhi verso il padrone di casa. Aprì la bocca per parlare ma non riuscì a trovare delle parole adatte a spiegare ciò che sentiva. Confusione? No, era ben altro. Una sensazione di freddo si impossessò di lui, repentina, come una malattia.
Qualcosa, qualcuno… cosa era successo, cosa?
«Credo di stare poco bene», biascicò, con gli occhi sgranati.
Griffin non replicò. Rimase fermo sulla porta a guardarlo, celato nella penombra, prima di chiudere la porta alle sue spalle.
Per un istante, Dyce rimase fermo a fissare l’uscio ormai chiuso del numero 15. Era senza parole, senza fiato. Il battito del cuore rimbalzò tra cervello e orecchie, assordandolo.
Cosa era accaduto davvero?

giovedì 4 novembre 2010

Auld Reekie #5

5
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Dopo aver ricevuto le lettere da Londra, Newcastle e York, George Dyce intuì di aver commesso un’imprudenza che poteva costargli cara: i sospetti che nutriva erano gravi, gli indizi numerosi. Tanti piccoli frammenti, notizie che la rete dei Fratelli della Luce gli aveva trasmesso e che lui aveva messo insieme fino ad abbozzare un puzzle in cui ancora mancavano molti pezzi. 
Così, in un momento di follia, aveva pensato di andare alla ricerca degli elementi mancanti: doveva avvicinare i Griffin, entrare nella loro casa… ma se la sua teoria era fondata, rischiava di non uscire vivo dal numero 15 di Canongate.
Squadrò con sospetto il massiccio portone nascosto dall'ombra di un arco di pietra che apparteneva a un edificio anonimo, simile a quelli che lo circondavano. Alle sue spalle, la città vibrava, carica di vita e di energia; scoccò un’occhiata invidiosa ai passanti che correvano, inseguiti da scrosci di pioggia. Afferrò il battente, incerto: la tentazione di fuggire era invitante. Poi strinse le dita attorno al cerchio d’ottone e lo lasciò ricadere con un tonfo sonoro.
La governante, una donna di mezza et, aprì la porta e lo introdusse in una sala da pranzo arredata con un gusto sobrio. La cura dei dettagli dava una sensazione di benessere ed eleganza: pareti decorate a piccoli gigli di Francia bianchi su fondo azzurro, mobili di legno antichi, arazzi fiamminghi alle pareti, tende di velluto blu scuro. I Griffin erano benestanti, non c’era nulla da dire.
Ma erano solo questo?
Lo avrebbe scoperto da lì a pochi minuti: Samuel Griffin con la moglie e un’altra giovane donna lo attendevano in piedi, vicino al camino.
Dyce deglutì.


Alle undici, Margaret, la governante di casa Griffin, annunciò il dottor Dyce. Samuel ebbe un cenno di assenso, poi si rivolse a Joanne ed Ester che attendevano con lui nella sala da pranzo.
«Deve restare vivo. Mi raccomando: non dovete lasciare alcuna traccia».
Ester sollevò i suoi immensi occhi castani su di lui. «Come ordini». Un sorriso sensuale, ferino, apparve sul suo volto così soave e lo distorse completamente. Joanne annuì rapida e fece un cenno con la mano.
«Sssh! E’ qui!».
Un istante dopo, la porta si aprì e George Dyce entrò nella stanza. Aveva le scarpe umide e il bavero della giacca spruzzato di pioggia, gli occhiali bagnati. Pioveva.
Go to fullsize image«Benvenuto nella nostra casa, dottor Dyce».
L’uomo accennò un sorriso di circostanza. Sembrava in imbarazzo, persino a disagio.
«Conoscete già la cugina di mia moglie, Ester Hates?» chiese Samuel, indicandogli una sedia.
Il medico lanciò uno sguardo fugace alla ragazza che ricambiò con un cenno del capo. Un’occhiata troppo fugace, quasi allarmata. «Solo di vista. È un piacere conoscerla, Miss Hates».
Joanne cercò gli occhi di Samuel, li trovò, e per un istante rimasero legati; poi distolsero lo sguardo all’unisono.
Dyce continuò a sorridere, impacciato. Parlò delle novità politiche e del tempo: l’autunno era arrivato all’improvviso e la temperatura si era abbassata in maniera repentina, causando un gran numero di malanni.
Samuel Griffin lanciò un lungo sguardo alla moglie: in esso si mescolarono apprensione e disagio, come un vero marito innamorato.
«Bene. Credo… sia venuto il momento di lasciarvi soli. Io attenderò qui».
Dyce tolse gli occhiali per massaggiarsi le palpebre. «Giusto. Se vostra moglie volesse accomodarsi nella sua camera…» 
Joanne ne approfittò e sollevò lo sguardo verso Samuel. «Potreste accompagnarmi voi, mio caro?» chiese, con voce esitante. Lui annuì, precedendo il medico lungo il corridoio.
«Sospetta qualcosa, ne sono certa» mormorò Joanne, seguita da Ester. «Ci sta osservando con troppa attenzione» continuò quando Samuel si chinò a sfiorarle la mano con un bacio e annuì con gli occhi.
Giunti nella stanza da letto, le due donne si sedettero sulla sponda del letto tenendosi per mano, come se Joanne cercasse conforto nella stretta della cugina. Dyce le pose quesiti che esigevano una risposta immediata. La interrogò rapidamente, incalzandola, come se si aspettasse di coglierla in fallo.
D’istinto, Joanne si concentrò sulla voce dell’uomo, senza far troppo caso alle parole. Suoni, vibrazioni, sfumature, tutto ciò che potesse rivelare incertezza o nervosismo.
La sua voce era piena di tensione.
«Mangiate di buon appetito?». Molta tensione. Anomala.
«Sì. Faccio una vita tranquilla».
«Il vostro ciclo è regolare? Quando è stato l’ultimo?». Curiosità. Tanta.
«Sì, è molto preciso. L’ultimo è stato tre settimane fa».
L’uomo sospirò. «Adesso dovrò chiedere qualcosa di molto riservato».
Joanne capì. Si stampò sul viso un’aria contrita e imbarazzata, mentre Ester usciva dalla stanza.
Dyce si mise davanti a lei, gambe piantate a terra e mani chiuse, quasi in preghiera. «Perdonerete la mia intrusione nella vostra intimità ma credo possiate capire che queste informazioni sono indispensabili per comprendere le cause della vostra sterilità. Vostro marito… ha difficoltà di alcun genere nell’atto coniugale? Riesce a portarlo a termine?».
Joanne abbassò gli occhi sulle mani che teneva incrociate sul grembo, meditabonda: per un istante si chiese come potesse essere Samuel come amante. Dovette costringersi a soffocare un risolino nervoso.
«Nessuna difficoltà». L’idea di un altro corpo si affacciò alla sua mente. Un altro viso, un uomo che amava. La scacciò, irritata con se stessa e si costrinse a rimanere concentrata.
«Ogni quante volte vostro marito vi chiede di compiere il vostro dovere di sposa?».
Quante volte cosa? Facevano sesso? Che razza di domanda era quella?
Sperò che nessuno di loro stesse origliando o l’avrebbero presa in giro per giorni. Strinse le labbra per non ridere. «Circa due volte la settimana».
«E vostro marito emette seme durante l’atto?».
Questa poi! I maschi della sua specie non emettevano seme.
«Sì».
«Adesso signora Griffin, devo chiedervi di stendervi a letto e di lasciarvi visitare. Prima vi ausculterò il petto e verificherò la vostra complessione, per capire se il vostro fisico sia adatto o meno a sostenere una gravidanza, poi procederò a una visita personale».
Joanne alzò la testa guardandolo fisso negli occhi. Non permettergli di toccarla e sentire che era fredda, molto più fredda di qualunque essere umano. Che non c’era alcun suono in lei. Che il suo cuore non batteva più.
Che il suo era un corpo morto.


Dyce era nervoso. Si sentiva soffocare, aveva la nausea, il corpo era scosso da brividi freddi quasi come il giorno in cui aveva eseguito la sua prima dissezione in un’aula gremita di studenti e professori. Lì, però c’era solo una giovane signora timida che non riusciva ad avere un figlio.
O no?
Quella donna, adesso, lo stava guardando intensamente negli occhi, in silenzio.
Perché mi sta fissando così?
D’improvviso, quello che era un sospetto, divenne certezza.
Erano lì. Era lei.
Erano “loro”.
La mente di George Dyce si aprì, squarciata da una lama di consapevolezza: Griffin, sua moglie, forse sua cugina… e chi altro?
Quanti altri?
Il cuore iniziò a battere violentemente contro lo sterno, mozzandogli il respiro. Percepì la tensione innalzarsi dentro di lui, le mani gli tremavano e un rivolo di sudore gli scivolò lungo la fronte. Cercò di sottrarsi allo sguardo della donna, affaccendandosi a cercare gli strumenti nella borsa.
Dio mio, aveva ragione, allora! Erano anche a Edimburgo! Erano in tre o quattro, almeno… e chissà da quanto tempo!
Ebbe un capogiro. Si appoggiò con la mano alla spalliera della sedia, poi si voltò, abbozzando un sorriso storto, più simile a una smorfia sghemba.
Sobbalzò: Joanne Griffin era a pochi passi da lui e lo stava fissando, placida, bellissima e inquietante.
«State male, dottore? Siete impallidito».
«Non è nulla» mormorò, allontanandosi di alcuni passi, a disagio.
La donna lo seguì con un sorriso appena accennato sulle labbra rosse socchiuse. Gli poggiò una mano sul braccio, premurosa. «Sembrate accaldato. Sedetevi, vi farò portare un bicchier d’acqua».
Dyce scosse la testa, respingendola con una mano. «No. Non vi avvicinate». Cercò di bloccarla, mentre una paura strisciante saliva dal petto a stringergli la gola.
Ma Joanne avanzò di un altro passo tendendogli la mano: i suoi occhi erano fissi in quelli del medico. Dyce sentì il panico dilagargli nella mente, intuì che stava per perdere il controllo.
Di che colore erano i suoi occhi? Azzurri. No…
Non riusciva a capirlo. Fu sopraffatto da una sensazione di stupore ovattato che soppiantò l’orrore; subito dopo, sentì il corpo cedere di schianto. Scivolò a terra senza un lamento, mentre la coscienza di sé veniva annullata da quello sguardo intenso, profondo, sconvolgente.
Nella sua mente, una nebbia nera e vischiosa ricoprì ogni pensiero, paralizzando le sue reazioni: gli mancò l’aria, non riusciva più a respirare.
Vide Joanne chinarsi su di lui. Un istante dopo, anche quel viso divenne nebbia.
Sentì qualcosa entrare nella sua mente, simile a una mano fredda che gli rovistava dentro il cranio.
L’ultimo pensiero cosciente fu il colore degli occhi di quella donna.
Azzurri. Gli occhi di Joanne Griffin erano azzurri.
( Il 5° capitolo continua... )