martedì 19 maggio 2009

Come promesso... un piccolo"morso".

AULD REEKIE



Prima parte

Alla luce del giorno.


Prologo

Londra, agosto 1846


Le volute di fumo che si levavano dalle rovine coloravano il cielo di un grigio più scuro, carico. Il puzzo di bruciato ammorbava l’aria più del tanfo del carbone che aveva impregnato da decenni l’aria di Londra e che aveva sporcato anche le candide facciate delle eleganti case del nuovo quartiere di Kensington.
C’era stato un incendio, la notte precedente. Una palazzina tranquilla, in una stradina laterale era andata a fuoco e nulla aveva potuto salvare i suoi abitanti. Erano morti, tutti.
Le macerie dell’edificio erano simili a ossa annerite, coperte di fuliggine; alcuni uomini in abiti scuri si aggiravano senza parlare tra esse, scostando travi annerite o pezzi di legno, frugando alla ricerca di qualcosa che il fuoco potesse aver risparmiato la notte precedente. Non erano razziatori, si capiva dal modo in cui si muovevano: furtivo, gli occhi fissi a terra, le mani inguantate che sollevavano le assi risparmiate dal fuoco con attenzione, quasi con cura, senza arraffare quel po’ che l’incendio aveva risparmiato.
Uno di loro, vestito con uno spesso mantello scuro, un cappello sugli occhi, leggermente claudicante, sembrava essere il loro capo. Li dirigeva a gesti, con poche parole e lasciava scorrere il suo sguardo tra la cenere e le rovine, cercando.
Sì, stavano cercando qualcosa.
A un tratto, uno di loro ebbe un piccolo grido di sorpresa. Fermo dinanzi una parete, aveva trovato, sotto un quadro semidistrutto dalle fiamme, una piccola cassaforte. L’incendio non sembrava averla danneggiata. Era salda, lì, al suo posto.
L’uomo zoppo si avvicinò e represse un gesto di esultanza.
“Staccatela da muro e portatela alla sede dei Fratelli della Luce” ordinò, a bassa voce “E che non vi veda nessuno.”
L’uomo che aveva ritrovato la cassaforte sorrise. “Me ne occuperò io personalmente, signore” mormorò, lasciando scorrere la mano lungo il pannello di metallo. “Ci saranno molti soldi?” poi chiese a un tratto, con la voce leggermente incrinata.
Lo zoppo ridacchiò, piano. “Soldi? Oh, può darsi… ma non è questo ciò che ci interessa, vero?”
L’altro annuì, con una smorfia. “No” considerò, guardandosi attorno. Dai suoi occhi affiorò un disagio improvviso. “Ne abbiamo stecchiti più di dieci, ieri sera. E’ stato impressionante vederli morire così, accartocciarsi e ridursi in cenere… Non lo dimenticherò tanto facilmente” ammise in un soffio.
“Non li abbiamo uccisi, Richard” lo interruppe l’uomo. “Non abbiamo ammazzato nessuno. Erano già morti, forse da secoli o ancora di più. Non devi pensare a loro come a esseri umani e vivi: sono senza anima, corpi senza sangue, sono insetti. Parassiti schifosi che devono essere distrutti senza tentennamenti. E’ nostro compito quello di rimettere ordine nel mondo. Per questo li combattiamo e li eliminiamo: perché sovvertono l’ordine della vita. Noi siamo I Fratelli della Luce, non siamo ne assassini, ne ladri o torturatori: siamo nel giusto perché siamo i custodi dell’umanità. Ricordalo, sempre.”


1

Edimburgo, settembre 1846

Strana mattina, quella. Il cielo, di un azzurro tanto intenso da sembrare irreale, era coperto da nuvole simili a fiori di cotone, spessi e sporchi, trascinate da un freddo vento radente. Il sole, che fino a pochi istanti prima aveva ricoperto il selciato e le facciate di pietra di Grassmarket, era sparito e adesso si era trasformato un disco bianco e opaco, celato da una cortina di nubi.
Da lì a poco sarebbe piovuto.
Ma questo alla folla non interessava. Centinaia di teste ondeggiavano, senza un ritmo coerente, invadendo la piazza in ogni angolo. C’era puzza: un tanfo nauseante e malsano, che il vento non riusciva a scacciare via del tutto. Arrivava a folate, disgustoso. Odore di uomini e animali, sudore, escrementi, vomito, paglia e foglie marce, cavoli andati a male e carne putrefatta.
Era una mattina agitata, piena di traffico, voci e persone. Ragazzini arrampicati sui lampioni, sugli alberi; un mucchio di gente che si sporgeva dalle finestre, gesticolando. E carrozze. Molte carrozze tirate a lucido, ferme tra il limitare della piazza e Castle Wynd north.
Sotto la volta annerita dei close, gli strilloni vendevano lo Scotsman e l’Evening post. Poco distante, una venditrice di pannocchie, vecchia, con un gran fazzoletto in testa; più in là, dei monelli che si rincorrevano tra la folla. Ancora più lontano, un gruppo di uomini ben vestiti, mercanti forse, che discutevano con un occhio alla strada e un altro alle signore non troppo coperte, affacciate al secondo piano di una vecchia palazzina, su un angolo della piazza.
Tra un po’, sarebbe iniziato lo spettacolo. Era quello il motivo per cui tutta quella gente era riunita lì: il palcoscenico era già pronto e uno degli attori principali stava tranquillo ai piedi della scala, con le braccia conserte, in attesa.
Il vento dell’ovest si fece più freddo, insistente. La pioggia sarebbe arrivata prima di quanto si pensasse: alcuni avevano iniziato a guardare il cielo, indicando le nubi che si compattavano.
All’improvviso, il mormorio che animava la piazza crebbe d’intensità divenendo quasi un grido. Braccia, mani, teste, tutti si voltarono verso un piccolo carretto trascinato da un cavallo troppo stanco, guidato da un carrettiere di mezza età. Tre uomini, su quel carretto. Due in uniforme rossa, armati. Uno in catene.
Altri soldati iniziarono a spingere la folla, premendo con i fucili, per aprire un varco al carro. La folla rumoreggiò, protestò, ondeggiò e infine si aprì, districandosi come una matassa mentre gli insulti si mescolavano con le grida dei militari che spingevano, con violenza.
Lentamente, il conducente portò il carretto al centro della piazza. Un palco di legno, annerito dall’umidità, sorgeva proprio laggiù. Certo, sarebbe stato più corretto definirla impalcatura: quel palo piantato nel mezzo non andava molto d’accordo con il concetto di teatro, men che meno quella corda che ondeggiava leggera al vento, o quell’uomo, con uno spesso cappuccio sul viso ai piedi della scala.
A Edimburgo, le impiccagioni erano state sempre un evento, per tutti: ricchi e poveri, giovani e vecchi. Un vero spettacolo.
C’era un insano piacere nel vedere un uomo che muore, per alcuni; per altri c’era il brivido di poter dire che quella volta non era toccata a loro. Per altri ancora, era la conferma che l’ordine sociale esisteva e che aveva la forma di una robusta corda di canapa e di un nodo scorsoio.
L’uomo nel carretto iniziò a tremare. Era poco più di un ragazzo, in verità, con addosso solo un paio di pantaloni e una camicia bianca. Le gambe gli cedettero, di schianto e i soldati di guardia furono costretti a sollevarlo di peso. Quello, allora, si riscosse e faticosamente si rimise in piedi, stringendo i pugni. Guardò a terra. Non voleva far vedere che stava piangendo.
Iniziò a salire i gradini, arrancando. Dalla folla, si alzarono urla: c’era bisogno di silenzio, in quel momento. Era il contegno del condannato a rendere memorabile un’impiccagione.
Lo spettacolo stava per iniziare.


“Non capisco perché tu sia voluto venire qui, Samuel. C’è un odore orribile.”
La donna scosse la testa e il cappello ondeggiò, amplificando il disappunto della sua proprietaria. Aveva detto quelle parole scendendo dalla lucida carrozza, ferma al termine di Candlemaker Row, poco distante dalle altre, in un punto da cui si aveva una perfetta visuale sul patibolo. Il cielo si era fatto plumbeo, spesso, la luce uniforme e opaca. Un impalpabile velo di grigio si era steso sulla piazza, cancellando di colpo tutti i colori.
L’uomo le porse il braccio e si limitò a sorriderle. “Osservazione scientifica, Joanne.”
Dalla vettura scese un’altra figura, un uomo robusto, massiccio. Spalle larghe, muscolose, una larga barba rossa, occhi nocciola, scrutatori, folti capelli biondo rossicci legati in un codino. Mani forti. Si mise accanto ai due, fissando con interesse la scena che si svolgeva sotto i loro occhi.
“Era innocente, secondo te?” chiese, mentre un sacerdote si avvicinava al condannato.
L’altro uomo non rispose subito. Lasciò scorrere lo sguardo sulla folla sotto di lui, pigramente, per soffermarsi sul boia.
“Colpevole? Innocente? E’ solo una questione di punti di vista: per alcuni, rubare per fame significa essere colpevoli. Per altri è una necessità. Non ha molta importanza a questo punto, Will. Quel ragazzo laggiù è stato solo sfortunato a farsi beccare. Tutto qui.”
Dalla folla, in quell’istante, si alzò un grido. Più che altro, era un pianto disperato.
“Sarà sua madre… che lagna insensata.”
A parlare era stata la donna. Una smorfia arricciò il suo viso ovale, delicato e pallido. Aveva occhi allungati, di un azzurro slavato e capelli biondo oro. Molto graziosa, non c’era nulla da dire. Bel corpo, bel portamento, alta al punto giusto, morbida dove doveva esserlo.
Will emise un sospiro. “Se è sua madre, dovresti capirla, Joanne. Sei una donna anche tu.”
Lei rispose con un curioso suono di scherno.
Al centro, Samuel, fece un cenno con il dito, infastidito. I due tacquero immediatamente.
Qualcuno, un giudice forse, stava leggendo la sentenza di morte. Altre urla, più forti, lo costrinsero a interrompere la lettura più volte.
A gridare non era solo una donna anziana, piegata in due dalla disperazione. Era anche una ragazza. Giovane, giovanissima, da ciò che si poteva vedere da là. Capelli scuri scarmigliati, un abito marrone, le braccia tese verso la forca. Scalciava, mordeva e graffiava chiunque cercasse di trattenerla. Voleva salire lassù. Era un piccolo concentrato di paura, rabbia e dolore. Ma non era disperata, quello si capiva. Era scatenata, invece. Una piccola furia che voleva liberare…chi? Suo marito? Fratello? Amante?
Samuel strinse gli occhi, studiandola, incuriosito.
“Will” mormorò, inclinando appena il capo verso la spalla, tenendo sempre gli occhi fissi sulla scena. “Chi è quella ragazza?”
L’altro alzò la testa per guardare meglio, socchiuse gli occhi. Alla richiesta dell’ufficiale che aveva letto la sentenza, il ragazzo aveva scosso la testa: no, non aveva nulla da dire, poi aveva iniziato a piangere, forte. Il boia lo aveva fatto salire su una piccola panchetta.
Numerose urla di scherno si alzarono dalla folla: una chiazza umida si era allargata nei pantaloni, all’altezza del basso ventre. Il corpo stava pagando già il suo pegno alla paura.
“Quella che strepita, accanto alla vecchia?”
“Sì.”
“Credo sia la sorella di Joseph Tibbs, il condannato.”
L’uomo sorrise, sollevando un angolo della bocca, stringendo gli occhi. Il boia aveva sistemato il nodo scorsoio e adesso si trovava vicino alla leva per sganciare la caditoia.
“Cerca notizie su di lei, Will. Come si chiama, dov’è il buco che chiama casa, cosa fa. Tutto.”
L’altro annuì senza un commento: non era una richiesta strana per lui, quella. Si allontanò, mescolandosi alla folla e sparì, mentre minuscole gocce di pioggia iniziavano a cadere, trascinate giù da un vento insistente.
Joanne inclinò il capo, guardando il suo compagno in tralice. “Interessante creatura, non è vero?” mormorò.
Samuel le rispose con lo stesso sguardo, poi tornò a fissare la ragazzina. Sorrise con lentezza, un sorriso freddo, una luce strana, quasi famelica, negli occhi. Annuì.
“Mi piace. La voglio.”
Il boia sganciò la botola.


Dopo l’impiccagione, la folla si disperse con lentezza. C’era sempre qualcuno da salutare, qualcuno con cui commentare gli ultimi avvenimenti o il prezzo del bestiame. Un paio di mercanti si diressero verso la palazzina dove le signore poco vestite abitavano, altri restarono a ciondolare sotto la forca.
Samuel e Joanne erano rientrati nella carrozza. Fermi, attendevano il ritorno del loro compagno, senza parlare, fissando la folla che sciamava e ritornava a essere un insieme di persone che urtavano la vettura, facendola sobbalzare sul selciato di pietra.
La donna sollevò gli occhi verso il suo compagno e ridacchiò, divertita da un pensiero segreto.
“Sono felice che questo periodo trascorso qui a Edimburgo stia per terminare: questi otto anni mi sono sembrati un’eternità e ora tornare nelle Trossachs mi sembra un sogno, credimi. Ho bisogno di libertà, mi sento un animale in gabbia.”
L’uomo rispose senza guardarla. Continuava a fissare i volti, fuori dal finestrino.
“Dunque non ti è piaciuto essere la signora Griffin…”
L’altra rise divertita. “Non l’ho trovato sgradevole, e lo sai. Del resto, non ho molte alternative per vivere con te e con i nostri fratelli sotto gli occhi di tutti. Posso essere solo tua moglie o tua sorella.”
Samuel si voltò, con una luce maliziosa negli occhi.
“Potresti fingere di essere la moglie di Will.”
Lei alzò i palmi delle mani, in segno di difesa, ma con aria ironica. “Ho già fatto questa prova, se ben ricordi e mi è bastata, grazie.”
Samuel alzò le sopracciglia, con un cenno di assenso, poi scrutò la sua compagna, nascosta dalla penombra dell’abitacolo, appoggiata al sedile azzurro. Joanne dimostrava non più di venticinque anni e, ufficialmente, era sua moglie. Era delicata, tranquilla. Certo, i suoi occhi avrebbero potuto dire molto di lei, ben più del suo viso fresco: avevano una perenne espressione di scherno misto a noia che non passava inosservata in una donna così giovane.
Quanto a lui… anche lui era stanco di quella recita. Andava avanti da troppo tempo e in una città come Edimburgo era difficile mantenere dei segreti. Case strette, le une addossate alle altre, arrampicate sopra uno sperone di roccia attorno a Castle Rock, pareti sottili, miglia e miglia di cunicoli sotto terra, abitati da chi non poteva permettersi una casa in superficie, che mettevano in comunicazione tutta la città.
I segreti erano più preziosi dell’oro, ad Auld Reekie.
Il suo, molto, molto di più.
Anche la donna lo studiava, da sotto la falda del cappellino avorio. Avrebbe dovuto essere orgogliosa di quella finzione: avere un marito come Samuel sarebbe stato la felicità di ogni donna. Alto, spalle larghe. Capelli biondi scuri, con piccole ciocche disordinate che gli cascavano sulla fronte; occhi di un azzurro profondo, intenso. Viso pallido e affilato, liscio. Mani eleganti. La prima volta che lo aveva visto, aveva pensato che somigliasse più a un angelo che a un essere umano.
Tutto in lui era di una bellezza angelica, tranne il suo sguardo.
Vuoto. Raggelante. Indifferente. Gli aggettivi per descriverlo si sprecavano ma nessuno sarebbe stato in grado di definirlo.
Come coppia, avevano una sintonia perfetta, tale da ingannare chiunque: agli occhi dell’intera città, erano una coppia splendida. Ma anche la migliore recita del mondo, dopo un po’ viene a noia e lei era parecchio annoiata, come in quel momento.
Odiava attendere. Odiava quei mesi che la separavano dal ritorno nella loro tenuta nelle Trossachs e odiava aspettare, chiusa in quella carrozza. Will ci stava mettendo una vita.
Quasi evocato dal suo pensiero, l’uomo spalancò lo sportello. Entrò nella carrozza e di colpo l’ambiente sembrò restringersi, riempito dal suo fisico massiccio. Samuel diede un paio di colpi sul tetto della vettura e questa iniziò a muoversi.
“Allora?” chiese, aggiustando il plastron della cravatta.
“Si chiama Bridget Tibbs. Quindici anni, vive con sua madre e altri cinque fratelli dalle parti di Lawnmarket.”
“Sopra o sotto?”
“Sotto, nei vicoli. Hanno una stanza laggiù. A quanto pare, Joseph era l’unico che riusciva a raccattare qualcosa con i borseggi. Sua madre ha fatto la lavandaia fino a due anni fa, quando una pentola di lisciva le è finita in faccia e l’ha accecata. Sono degli autentici relitti.”
“E lei?”
L’uomo accarezzò la folta barba rossiccia. “Ha aiutato sua madre per un po’, poi è andata a servizio. L’hanno licenziata non appena si è saputo che suo fratello era stato arrestato per furto. Ha sempre trovato il modo di arrotondare, comunque.”
Tacque, a disagio, lanciando un’occhiata indecisa verso Joanne, che guardava fuori, indifferente alla loro conversazione. Samuel lo invitò a continuare, con lo sguardo.
“Un amico di suo fratello mi ha detto che non è molto brava a sfilare portafogli ma lo è sicuramente di più ad aprire le gambe.”
L’altro non commentò: questo non era un dato importante per lui. Si appoggiò allo schienale imbottito, lanciando occhiate distratte fuori dal finestrino.
Aveva iniziato a piovere. Una pioggia violenta, arrabbiata, che staffilava il tetto della vettura e filtrava attraverso la porta della carrozza. Sotto l’acqua, le facciate di pietra della città vecchia rilucevano come argento brunito; i segni delle ruote delle carrozze erano simili a frustate sulle strade fangose, ingombre di carri.
La pioggia riempì con il suo odore i vicoli, i cortili, le scalinate. Sembrava voler lavare via tutta la sporcizia che incrostava Edimburgo e che ne avvelenava l’aria, pensò Samuel. Peccato che questo non fosse possibile: sarebbe dovuta cadere una pioggia tanto forte da scorticare i suoi abitanti per togliere di mezzo l’odore di tutto quel lerciume.
C’era una gran differenza con la New Town, la città nuova che stava prendendo forma ai piedi di quella vecchia, verso nord. Aveva comprato un’intera palazzina, laggiù, in una piazza tranquilla, poco abitata, l’aria pulita. Strade larghe, viali alberati, persino l’acqua corrente. Era un lusso un po’ costoso ma, tutto sommato, poteva permetterselo: possedeva un’impresa di export, che trafficava con le colonie indiane e cinesi. Era un’attività redditizia che adesso stava liquidando, in prospettiva alla sua futura partenza.
Aveva vissuto a Edimburgo per troppo tempo, più di dieci anni. Era arrivato il momento di sparire, di nascondersi. Di tornare nelle Trossachs, nella sua vera casa.
Quel pensiero gli procurò un brivido di piacere. Le immagini di Loch Ard e della foresta nella sua tenuta lo staccarono dalla realtà, per qualche istante. Il suono della pioggia sulle foglie. Il ticchettio della rugiada, lo scorrere del vento tra le querce dinanzi alla casa, il leggero crepitio della ghiaia sotto gli zoccoli dei cavalli, la luce delle stelle di notte che si riflettevano nelle acque gelide ed immobili del lago…
Una frenata leggera e il tintinnio delle briglie lo strappò dalle sue riflessioni. Una parete in pietra, bagnata di pioggia comparve dinanzi ai suoi occhi. Erano arrivati a casa.

5 commenti:

  1. wow!...sembra davvero interessante!

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  2. Grazie! spero di poter aggiungere qualcos'altro, più in là!
    stefania

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  3. Ciao
    Il tuo lavoro è splendido, dove posso comprare il romanzo?
    Cris

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  4. lo presenterò al festival di matera. Si tratta di una saga, di cui questo è il 5 volume, ambientatato nel 1846; il resto, invece, si svogle nei nostri giorni... a breve posterò anche qualcosa di questi volumi! Grazie, sono felicissima che ti sia piaciuto!

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  5. Adoro leggere romanzi ambientati in Scozia, e poi essendo nata ad Edimburgo non può che farmi piacere leggere questo tuo lavoro. Complimenti!!

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