e ecco a voi il seguito... Per chi non ha letto la prima parte, la troverete nei post precedenti.
Come al solito, ogni commento e/o suggerimento sarà gradito.
Le giornate di Elizabeth Duskell scorrevano tutte uguali. Colazione. Ordini in cucina. Organizzazione della giornata per Violet e Satine. Cura dei conti e della corrispondenza. Passeggiata, se il tempo lo permetteva. Pranzo leggero. Eventuali visite. Cena.
Lettura.
Era quest’ultimo il momento che amava di più nella giornata.
Dopo aveva saputo della relazione del marito, Elizabeth aveva raccolto i cocci della dignità e dell’amore ferito ed era andata alla ricerca di qualcosa che le tenesse la mente impegnata, aiutandola a sfuggire al dolore. Il ricamo non era servito a molto: in un paio di occasioni, aveva persino spezzato l’ago, stringendolo con troppa forza.
La lettura era stata la seconda scelta.
Un pomeriggio si era recata in biblioteca e aveva scelto gli scritti di Seneca. Il grande filosofo latino l’aveva sorpresa e affascinata, tanto che era andata alla ricerca di altri testi del medesimo genere. Ancora dopo, aveva scoperto la Patristica; poi Platone e Aristotele.
L’interesse di Elizabeth per la filosofia era cresciuto come un albero privo di sostegno: aveva letto quelle opere con avidità, senza metodo, affondando con la mente nelle teorie che si dipanavano sotto i suoi occhi. In breve, il desiderio di sapere si era trasformato in una passione sregolata e famelica che l’assorbiva interamente.
Così, un giorno si era resa conto che la sofferenza non era più cocente come prima e che al posto della ferita aperta vi era una cicatrice. Dolorosa, certo, ma pur sempre una cicatrice. La filosofia l’aveva aiutata moltissimo e i libri erano diventati parte del mondo che si era costruita per sfuggire alla solitudine.
Fu con un sussulto che, quella mattina, notò un volume di pelle color borgogna sul suo tavolino da toilette. Si avvicinò, prendendolo tra le dita. Corrugò la fronte.
Non era suo. Non lo aveva mai visto prima.
La pelle era morbida, l’incisione sul dorso nuova, impressa nel cuoio: era un’edizione costosa, di gran pregio. Lo tenne tra le mani per alcuni secondi prima di aprirlo, domandandosi a chi potesse appartenesse. Forse a suo marito? No… Era tornato molto tardi, quella notte, e aveva dormito nel suo studio risparmiandole così di sentire l’odore del suo corpo impregnato del profumo di un’altra donna.
A chi poteva appartenere?
Lo aprì, curiosa.
Era il Fedone di Platone. Il dialogo dedicato alla morte di Socrate.
Scorse le pagine, rapida. Nessuna scritta o dedica, nessun timbro.
Chi poteva essere stato a metterlo lì? Di certo, non suo marito: Mildred, la cameriera, le aveva detto che il signor Duskell l’aspettava dabbasso per far colazione e che sarebbe salito in camera a cambiarsi solo dopo che Elizabeth fosse uscita.
Qualcuno dei domestici? Era poco plausibile.
Ma allora come c’era arrivato?
Rigirò il volume tra lei mani. Era nuovo: aveva quell’inconfondibile odore di carta che hanno i libri appena usciti dalla tipografia; la copertina era liscia, senza graffi. Incapace di trovare una spiegazione, si lasciò cadere sullo sgabello dinanzi allo specchio.
I suoi grandi occhi da cerbiatta, castani screziati di nocciola, fissarono l’immagine sbigottita nello specchio: l’espressione corrucciata, le labbra rosa socchiuse e il respiro leggermente accelerato. Sul volto chiarissimo erano apparse due chiazze rosse e i capelli, castani e lucidi, scivolavano fuori dalla treccia in cui li legava ogni notte, incorniciando il suo viso ovale e delicato.
Tornò a fissare il libro, poggiato sulle sue ginocchia.
Era estraneo e invitante. Misterioso. Inquietante.
Elizabeth si guardò allo specchio, di nuovo, attraverso le lunghe ciglia scure. D’improvviso, un brivido freddo le percorse la schiena, come una carezza fatta da dita gelate. Lasciò cadere il libro, turbata, e si guardò attorno nella stanza deserta.
Dall’altra parte del cortile, oltre il muretto di pietra grigia, dietro una spessa tenda di raso avorio, Oliver Gordon sorrise compiaciuto.
Quella mattina, Elizabeth accompagnò Mary e le bambine ai Queen’s Garden, poco lontano da Moray Place. Portò con sé il libro che aveva trovato. Era ansiosa, e non solo per il desiderio di leggere quell’opera: la curiosità di sapere come fosse giunto nella sua stanza non le dava tregua. Nessuno dei domestici sapeva nulla e suo marito aveva scosso la testa, limitandosi a un’occhiata distratta.
Seduta su una panchina, iniziò a leggere. Il cielo era plumbeo, chiuso, e una luce malata velava il giardino immerso nel silenzio. Satine e Violet giocavano con il cerchio, a pochi metri da lei, sotto gli occhi attenti di Mary.
Mentre era immersa nelle parole dei discepoli di Socrate, un grido di Violet la strappò alla lettura. La piccola era ruzzolata a terra, urtando un uomo che le si era parato dinanzi all’improvviso. Elizabeth si alzò di scatto, correndo verso la figlia che piagnucolava, indicando il ginocchio; Mary la prese in braccio portandola alla panchina.
Elizabeth soffocò un sospiro di stanchezza, poi si volse all’uomo: Violet era molto vivace, spesso combinava pasticci e a lei toccava sempre scusarsi.
Quando alzò il viso per parlare, però, la bocca le si seccò.
L’uomo che aveva davanti era… indescrivibile. Di una bellezza aristocratica. Viso ovale, capelli biondo scuro, fisico asciutto, vestito con abiti di grande qualità. Sul volto un’espressione di noia, quasi di fastidio, che Elisabeth attribuì all’incidente appena avvenuto.
Di colpo, si sentì confusa. Avvertì un brivido di gelo risalire dalle sue caviglie su per le gambe, fino alla schiena. Un freddo improvviso l’aggredì, paralizzandole il corpo. Gli occhi distaccati di quell’uomo la fissarono con sicurezza per una manciata di secondi, quasi come se la conoscesse. Erano azzurri, scuri e freddi.
La donna sentì il cuore accelerare e deglutì. Per la seconda volta in pochi giorni, un uomo sconosciuto generava in lei una sensazione intensa, inspiegabile, che le toglieva ogni capacità di reazione, trasformandola in una creatura spaventata.
Stavolta riconobbe subito la paura.
Era lo stesso terrore inspiegabile e angoscioso che aveva provato dinanzi all’uomo con gli occhi grigi e morti. Una sensazione di minaccia, sconvolgente per la sua forza.
L’uomo si limitò a sorridere, stringendo gli occhi: un sorriso senza calore, che acuì il senso di panico di Elizabeth. Inclinò il capo e parlò, con voce roca, oltrepassandola con un unico movimento fluido.
“Scuse accettate!” sussurrò, come un soffio di vento contro il suo orecchio.
Elizabeth rimase a bocca aperta, mentre sua figlia continuava a frignare. Immobile al centro del vialetto di ghiaia, incapace di reagire, lo vide sparire tra le ombre degli alberi.
“Già ti parrà sorprendente che, di tutti i fatti umani questo solo sia indiscutibile, e che mai succeda – come negli altri casi – che in certe circostanze e per determinate persone sia meglio morire che continuare a vivere; ma per questi avvantaggiati dal morire, ripeto, per queste persone è sacrilego procurarsi con le proprie mani un bene, ma debbano attendere un benefattore estraneo”.
Le parole di Platone colpirono Elizabeth. Sembrava quasi che fossero state scritte apposta per lei, per quel momento. Aveva lottato per resistere ai colpi bassi del destino, ma adesso si sentiva così stanca...
Amava moltissimo le sue figlie. La servitù la considerava una buona padrona e la rispettava. Aveva salute intelligenza. Eppure non bastava. Si sentiva distante da loro. Da tutti.
Perché era poco amata.
Talvolta, aveva la sensazione di vivere in un mondo a parte, separata dal resto dell’umanità, lontana persino da se stessa. Era come un albero in mezzo alla brughiera: sola, spazzata dal vento, con i rami protesi verso il cielo.
La solitudine l’aggrediva alla gola e le toglieva lucidità. La annichiliva. L’angoscia la sommergeva e doveva battersi con tutte le sue forze per reagire.
Eppure, era in quei momenti di disperazione che Elizabeth si sentiva viva. È solo un po’ di tristezza. Passerà, si diceva. Alzerò di nuovo la testa. Guarderò avanti.
Quella notte stava affrontando uno di quei momenti. E non era per niente facile.
Durante la sua passeggiata mattutina aveva incontrato una sua conoscenza, una certa Mrs. Florence, che le aveva accennato che suo marito era stato visto in compagnia della signora Selkirk.
Dietro le parole di solidarietà, Elizabeth aveva avvertito il piacere maligno che provava quella donna nel raccontarle del comportamento sfacciato del marito. Unica, misera vittoria, era stata la maschera di indifferenza con cui si era difesa e che aveva lasciato insoddisfatta la curiosità scoramento morbosa di Mrs Florence. Era tornata a casa con il viso impassibile e il cuore pesante per l’ennesima umiliazione.
Adesso, sola e insonne, distesa nel letto, teneva tra le mani il misterioso volume che aveva trovato sul tavolino. Leggendo quelle parole, aveva sentito un morso doloroso. Era in momenti simili che sentiva la vita come un peso, che desiderava qualcuno che la sollevasse dall’esistenza.
Scosse la testa, stizzita: non erano ragionamenti sensati, i suoi. La stanchezza di vivere era tanta, l’amarezza ancor di più, ma non avrebbe permesso allo sconforto di averla vinta. Se così fosse accaduto, si sarebbe spenta in poco tempo.
Immersa in quei pensieri, non si accorse subito della strana sonnolenza che l’avvolgeva. Fu una sensazione improvvisa, estranea, che la vinse in pochi istanti senza che potesse opporsi. A quel torpore, si sostituì uno stato di calma che le impregnò la mente. Fatica, sofferenza, umiliazione scivolarono lungo la china della sua consapevolezza, rotolando fino all’incoscienza.
Fu così che, senza accorgersene, Elizabeth cadde in un sonno oscuro e senza memoria.
Nascosto tra le ombre della notte, Oliver lanciò un’occhiata distratta all’interno della stanza di Elizabeth Duskell. Dormiva profondamente. Tra le sue dita, il Fedone ancora spalancato. La luce era stata spenta.
Sul suo collo, un’ombra nera.
Dalle labbra della donna sfuggì un sospiro accennato, simile a un gemito. La testa si spostò di lato e la treccia si disfece, sparpagliando i suoi capelli sul cuscino. L’ombra, allora, inclinò il capo, sollevando il corpo di Elizabeth fino a che non trovò la piega morbida del collo e si accostò ad esso. Lei gemette di nuovo. Più forte.
Sembrava quasi che l’ombra la baciasse con passione.
Sembrava.
Dopo alcuni minuti, la sagoma scura si staccò da lei; si mescolò al buio della stanza e sparì dietro le cortine delle tende, scivolando fuori attraverso la finestra. Dal muro, risalì sul tetto, confondendosi con le altre ombre.
Elizabeth rimase immobile, abbandonata sul cuscino. Il suo volto era diventato pallido, segnato da lunghe occhiaie; le labbra rosate avevano uno strano colore grigiastro e dalla bocca aperta usciva un respiro affannoso, sibilante.
Samuel raggiunse Oliver, disteso sulle tegole di ardesia del palazzo al numero dodici di Moray Place; si pulì le labbra, passando il pollice sul labbro inferiore. Era meno pallido; il suo viso angelico sembrava persino roseo.
“Sei stato rapido” considerò Oliver contemplando il cielo notturno, insolitamente sgombro di nubi. I suoi occhi vagarono con lentezza sui tetti della città vecchia. “È ancora viva?” chiese.
“Sì. È un corpo resistente. Credo proprio che la signora Duskell darà grandi soddisfazioni” rispose Samuel, stendendosi accanto a lui.
“Sei stato tu a regalarle la copia del Fedone?”chiese, dopo un po’.
Oliver inarcò le sopracciglia con un’espressione ironica. “Sì. Visto che la signora Duskell vedrà presto la fine dei suoi giorni, ho pensato che fosse un dono adatto. Plutarco racconta che Catone abbia passato la notte prima di suicidarsi leggendo quest’opera, cercando una risposta a ciò che tutti gli uomini si chiedono: cosa ci aspetta dopo la morte? Scoprì così che il coraggio e l’onore, doti di cui la nostra vicina sembra essere ben fornita, permettono all’anima di trionfare sul corpo.”
Samuel ebbe una risata secca. “Hai un senso dell’umorismo perverso”. Commentò, fissando il cielo nero, insolitamente sgombro di nubi. Rimase in silenzio per pochi istanti, poi riprese a voce bassa, quasi con un sussurro.
“Però… hai ragione. Anima contro corpo. È questo che contraddistingue la nostra esistenza, Oliver: gli esseri umani sono anima e corpo; noi siamo corpi senza anima. Quello che togliamo loro è ciò che noi non possiamo più avere.”
Il mattino dopo il cielo era livido, grigio. La pioggia rendeva lucido il selciato di pietre di Moray Place e le carrozze passavano dalla piazza slittando e cigolando sulle molle.
Al secondo piano del numero dieci, un lume acceso.
Elizabeth Duskell era debolissima, quel giorno. Si era svegliata con un pesante senso di oppressione al petto; le sue mani tremavano e nel momento in cui aveva tentato di mettersi in piedi, era caduta di schianto. Preoccupate per la salute della signora, la bambinaia e la domestica avevano chiamato il padrone. Anthony Duskell si era trovato dinanzi una donna pallida, incapace di muoversi, che lo fissava attraverso palpebre violacee e socchiuse.
“Dio mio, Elizabeth…” mormorò, prendendole la mano. Era gelida.
La donna tentò di parlare ma non ci riuscì. Il medico diede subito ordine che portassero dello sherry e i sali. Non riusciva a capire cosa potesse essere accaduto: sembrava vittima di una sorta di anemia fulminante o di una strana forma di esaurimento.
Per tutta la giornata, Anthony Duskell restò accanto alla moglie, guardando il suo petto che si alzava e si abbassava a fatica, sotto il peso del respiro. Nella stanza, il tempo sembrava sospeso, immobile. Silenzioso.
Anthony le tenne la mano; lei stringeva la sua, nei momenti in cui si sentiva più in forze. Solo dopo il tramonto, Elizabeth riuscì a parlare: raccontò di uno strano malessere che aveva avvertito già la sera prima, di come si fosse sentita debole al risveglio. Il marito l’ascoltava in silenzio, con la fronte corrugata, cercando di fare una diagnosi.
Fu quasi per caso che si rese conto di tenere ancora la mano della moglie. Elizabeth aveva una stretta debole: le sue dita erano ancorate alle sue, quasi avesse paura di lasciarlo andare via.
Anthony accolse quella sensazione con un misto di sorpresa e disagio. Sapeva di non provare nulla per la moglie, che aveva sposato senza amore per volontà della sua famiglia, così come sapeva di averle inflitto più dolore di quanto lei meritasse. Eppure, quella stretta lo consolava. Si sentì rassicurato. Assolto.
Sì, perché in fondo all’anima provava una sorta di senso di colpa per quella donna così bella e distante: Elizabeth lo aveva amato, e molto; lui non ci aveva neanche provato. Quando lei aveva compreso che non poteva aspettarsi alcun affetto da parte sua, lo aveva chiuso fuori dalla sua vita.
Ora, per la prima volta in tutto il loro matrimonio stavano condividendo qualcosa. All’improvviso Anthony capì che non voleva rinunciare a quell’intimità, per quanto effimera potesse essere. Capì che voleva una seconda occasione con Elizabeth, e che doveva meritarsela.
Così, le strinse la mano e si sedette accanto a lei.
Veramente splendido! L'ho finito con i lucciconi.
RispondiEliminaElena
Come avevo detto sul blog 'la mia biblioteca romantica' eccomi qui a leggere qualcos'altro di tuo...letto tutto. Mi piace molto il tuo stile e come dipingi i vampiri. Eccellente!
RispondiEliminaNon è finito qui, vero!?!?
RispondiEliminaLucia
Son passata dalle tue parti, ti ho messa tra i preferiti e presto ti leggo! Ciao, Auci!
RispondiEliminaritornero' con piu' calma..leggero' tutto...
RispondiEliminaParliamoci chiaro, se hai intenzione di pubblicare una puntata al mese io mi incavolo! Acceleriamo i tempi, il romanzo acchiappa, non perdere il pathos del lettore! Dì, Auci... posso postare su facebook?
RispondiElimina@Barbara: non è un romanzo breve ma un racconto lungo e, visto che me lo chiedi con tanta forza... guarda un po' che c'è adesso? :-D
RispondiEliminaps: per te e epr tutte. Certo che potete postare e diffondere su Facebook e ove volete!
RispondiEliminaAdesso si ragiona, stanotte leggo! Intanto... posto, tienimi d'occhio su fb!
RispondiEliminaCiao, questi tuoi racconti sono veramente belli. Sono racconti già terminati e pubblicati? Mi piacerebbe comprare qualche copia... Fammi sapere
RispondiEliminaSciaooo:-)
Sono andata a vedere 12 Moray Place, su Google Maps... Alloggiavi qui quando stavi ad Edimburgo?
RispondiEliminaBellissima zona :-)
@Mariabei... MAGARI!!!!! sono alla ricerca disperata di un editore che mi dia fiducia poiche sono una totale sconosciuta ed è mooooolto difficile "trovare un posto al sole".
RispondiEliminaE ahimè, no, non alloggiavo lì ma nelle vicinanze; ci son passata una sera di nebbia e pioggia, la prima volta che sono stata ad Auld Reekie. Ed è stato amore a prima vista, come per tutta la città.
Grazie per le tue parole! ^_^