martedì 16 novembre 2010

Auld Reekie #5 - 2

Chiedo perdono. Vi ho fatto attendere più del dovuto a causa di impegni familiari e personali. Ecco qui la seconda parte del quinto capitolo... e presto, lo giuro, avrete il sesto... 



«Samuel!»
Joanne non ebbe bisogno di gridare di nuovo: Samuel ed Ester erano nel corridoio davanti a lei ed entrarono di corsa. L’uomo spalancò gli occhi, sorpreso nel vedere Dyce a terra in una strana posa scomposta, con gli occhi rovesciati e la bocca aperta.
Joanne percorse la stanza a passi veloci, la mano poggiata sulle labbra con un gesto nervoso «Sa di noi!».
«Ne sei certa?». Samuel la raggiunse e le mise le mani sulle spalle bloccandola.
«Aveva paura. Appena ha intuito chi ero, si è spaventato a morte. Dopo averlo condizionato, on ho nemmeno dovuto scavare a fondo nella sua mente».
«Lo hai privato della coscienza», considerò Ester, chinandosi sull’uomo. Tastò con delicatezza la gola del medico e controllò gli occhi. «Si riprenderà tra un po’. Per allora, faremmo bene a trovare una storia convincente».
«Ha accettato di venire perché aveva già dei sospetti?» chiese Samuel, fissando con una smorfia carica di disprezzo il medico riverso a terra. Era patetico in maniera imbarazzante.
«Purtroppo, sì».
Samuel scosse la testa, il viso angelico segnato da una ruga di preoccupazione. «SI Fratelli della Luce sapevano che gli attacchi a Londra e York avrebbero messo in allarme le altre comunità. Hanno attivato gli osservatori in tutta la nazione, sperando in un passo falso, così come noi abbiamo tentato di anticipare le loro mosse.... E dannazione, ci hanno trovato!» esclamò con rabbia.
Si avvicinò alla finestra. Fuori, il cielo era coperto da nubi scure, gravide di pioggia.
Ancora pochi giorni e sarebbero stati braccati.
Samuel si voltò di scatto, avvicinandosi al medico. «C’è solo una cosa da fare: interverrò sulla memoria di Dyce, cancellerò via i sospetti e guadagneremo il tempo necessario per organizzare la nostra scomparsa».
Joanne lo guardò in tralice per un istante, poi annuì. «È meglio che ci pensi io: i suoi ricordi dovranno essere realistici. Dubito che tu sappia come si svolge una visita medica su una donna».
Samuel assentì con un sorriso abbozzato, poi si avvicinò, baciandola sulla fronte. «Sei stata eccezionale. In poche avrebbero avuto la freddezza di condizionare un uomo senza poi saltargli alla gola».
Joanne si strinse nelle spalle. « Non è stato difficile. È solo un umano, stolto e pieno di sé. ».
«Cancella tutto ciò che riguarda i suoi sospetti. Non deve ricordare nulla».
Joanne annuì senza parlare. Poi, rimasta sola, sollevò gli occhi verso il soffitto e scosse la testa con un sospiro pesante.
Era molto, molto peggio di quanto avesse immaginato.


George Dyce si trovò seduto al tavolino da toilette della camera da letto della signora Griffin. Davanti a lui, carta e un calamaio. Teneva in mano una penna.
Perché? Cosa doveva fare?
Sentì la testa confusa, come se dentro vi si fosse rifugiato un intero sciame d’api. Dietro di sé, Joanne Griffin stava terminando di rassettarsi. Le lanciò un sorriso imbarazzato attraverso lo specchio e tornò a concentrarsi sul foglio, guardando la penna.
Era disorientato.
La visita… sì. Ecco di cosa doveva scrivere!
La donna non presentava alcun problema: battito regolare, respirazione libera, il fisico sottile ma forte abbastanza da poter sopportare una gravidanza. Anche l’apparato riproduttore era sano, prima facie. Se non concepiva, il problema doveva essere nel suo ventre: forse il sangue non era abbastanza forte o forse era sterile ab origine. O ancora, era il marito a esserlo.
Le sue riflessioni furono interrotte da un tocco discreto.
«Avete terminato?». Ester Hates si affacciò dalla porta. Un ricciolo di capelli castani scivolò sul viso, accarezzandole le labbra.
«Sì».
La ragazza, quasi fluttuando, entrò nella stanza e si avvicinò alla cugina, prendendole la mano.
Era possibile che fossero…? No, si disse il medico. Scosse la testa, continuando a scrivere: in quella donna non vi era nulla che non andasse, nulla che potesse far pensare a lei come a un…
Ester si avvicinò al medico senza far rumore. Sorrise, timida, a occhi bassi; poi, alzò di colpo lo sguardo: profondo, intenso, tanto da causargli un capogiro. All’uomo mancò il fiato sembrò quasi di annegare in quegli occhi così simili a gemme di venturina
«Il signor Griffin la aspetta in sala da pranzo. Posso accompagnarla io mentre mia cugina termina di rivestirsi?» proseguì, in tono flautato.
Certo. Poteva accompagnarlo in capo al mondo se voleva.
Rimasta sola, Joanne si lasciò cadere su letto. Confondere i ricordi di quell’uomo era stato semplice: era intelligente ma non aveva una mente complessa. Sovrapporre idee e immagini per manipolarne la memoria era stato semplice.
Più doloroso era stato ricreare le sensazioni, i suoni, il calore di un corpo umano e vivo. Aveva dovuto ricordarli lei per prima. Farlo, però, le aveva causato un rimpianto amaro che le mordeva il petto.
Il contatto di mani calde sul corpo, in punti intimi, il tepore del respiro soffiato fuori dalle labbra, il suono del suo cuore, cupo, profondo e regolare, fino a che aveva funzionato… Ricordare la sensazione della vita che scorreva nelle vene era stato penoso.
Si sentì malinconica, vuota.
Sola.


Il sole era riuscito a sconfiggere l’assedio delle nuvole e adesso illuminava i mobili lucidi della sala da pranzo di Canongate; la finestra era chiusa e i rumori del traffico giungevano attutiti.
Un angolo della stanza era immerso nell’oscurità creata dalla tenda che schermava la finestra. Quasi celato da quell’ombra, Samuel sollevò lo sguardo su George Dyce seduto al lato opposto del tavolo, in piena luce.
«Dunque mia moglie non ha problemi, almeno all’apparenza».
«Già… Ritengo probabile che la vostra signora possa avere un ostacolo nelle profondità del  ventre, qualcosa che le impedisca persino di iniziare una gravidanza. Sarebbe utile una visita approfondita di una donna, una levatrice».
Il medico si mosse a disagio sulla sedia, poi chinò gli occhi sul bicchiere pieno di liquore che teneva tra le dita. Appena giunto nella stanza, Griffin gli aveva offerto un bicchiere di Porto che ora scintillava davanti a lui, producendo riflessi simili a rubini liquidi. Non c‘era nulla da dire, era un vino squisito. Allora, come mai non ne stava bevendo neanche una goccia?
Di nuovo, un sospetto incerto, nebuloso, si affacciò alla sua mente. Se aveva ragione, si trovava dinanzi a… qualcuno molto forte. Molto potente.
Dyce sollevò gli occhi. «Vostra moglie avrebbe bisogno di sole e di vita all’aria aperta per rafforzare un po’ il fisico» aggiunse, prendendo tra le dita lo stelo del bicchiere.
«L’ho trovata pallida».
«Joanne ha avuto sempre un colorito alabastrino. È una delle cose che apprezzo di più in lei». Sulle labbra di Samuel aleggiò un sorriso leggero che non arrivò agli occhi. Era rilassato, il braccio appoggiato al tavolo, la mano che sorreggeva il viso.
«Il Porto è di vostro gradimento?»
Il medico avvertì una strana sensazione nell’aria, simile a quella che avvertiva all’approssimarsi di una tempesta. Sorrise, impacciato, ma la risata suonò innaturale alle sue stesse orecchie.
«Sì, è ottimo. E voi, non bevete? ».
«Le notizie che mi avete appena dato non giustificano certo un brindisi, ma vi terrò compagnia per dovere di ospitalità».
E Griffin bevve. Un sorso, uno soltanto, accompagnato da un sorriso pigro.
«Se lo gradite, potrei inviarvene due bottiglie» disse poi in tono formale.
«Oh, vi prego… non disturbatevi», esclamò Dyce, in imbarazzo.
«Nessun disturbo. So quanto possano essere importanti certi piaceri della vita e nulla è più piacevole di un bicchiere bevuto dinanzi al fuoco in perfetta solitudine. Ne convenite, dottore?», mormorò con voce roca.
Samuel sollevò lo sguardo: azzurro, duro come lapislazzuli. Era antico e freddo, e nello stesso tempo, quasi annoiato e vigile.
George Dyce sentì un brivido lungo la schiena. «Credo che sia l’ora di congedarmi» mormorò, cercando nel panciotto l’orologio. L’ora che lesse lo fece sussultare: l’una. Era rimasto per due ore in quella casa! Com’era possibile? Non si fermava mai tanto a lungo per un controllo.
«Qualcosa non va?» chiese Samuel Griffin, accompagnandolo alla porta.
Il medico tornò a guardare l’orologio, perplesso. «Non… non pensavo di aver fatto così tardi» rispose confuso. Non poteva aver perso tanto tempo, era assurdo, era…
Dyce alzò gli occhi verso il padrone di casa. Aprì la bocca per parlare ma non riuscì a trovare delle parole adatte a spiegare ciò che sentiva. Confusione? No, era ben altro. Una sensazione di freddo si impossessò di lui, repentina, come una malattia.
Qualcosa, qualcuno… cosa era successo, cosa?
«Credo di stare poco bene», biascicò, con gli occhi sgranati.
Griffin non replicò. Rimase fermo sulla porta a guardarlo, celato nella penombra, prima di chiudere la porta alle sue spalle.
Per un istante, Dyce rimase fermo a fissare l’uscio ormai chiuso del numero 15. Era senza parole, senza fiato. Il battito del cuore rimbalzò tra cervello e orecchie, assordandolo.
Cosa era accaduto davvero?

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