giovedì 4 novembre 2010

Auld Reekie #5

5
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Dopo aver ricevuto le lettere da Londra, Newcastle e York, George Dyce intuì di aver commesso un’imprudenza che poteva costargli cara: i sospetti che nutriva erano gravi, gli indizi numerosi. Tanti piccoli frammenti, notizie che la rete dei Fratelli della Luce gli aveva trasmesso e che lui aveva messo insieme fino ad abbozzare un puzzle in cui ancora mancavano molti pezzi. 
Così, in un momento di follia, aveva pensato di andare alla ricerca degli elementi mancanti: doveva avvicinare i Griffin, entrare nella loro casa… ma se la sua teoria era fondata, rischiava di non uscire vivo dal numero 15 di Canongate.
Squadrò con sospetto il massiccio portone nascosto dall'ombra di un arco di pietra che apparteneva a un edificio anonimo, simile a quelli che lo circondavano. Alle sue spalle, la città vibrava, carica di vita e di energia; scoccò un’occhiata invidiosa ai passanti che correvano, inseguiti da scrosci di pioggia. Afferrò il battente, incerto: la tentazione di fuggire era invitante. Poi strinse le dita attorno al cerchio d’ottone e lo lasciò ricadere con un tonfo sonoro.
La governante, una donna di mezza et, aprì la porta e lo introdusse in una sala da pranzo arredata con un gusto sobrio. La cura dei dettagli dava una sensazione di benessere ed eleganza: pareti decorate a piccoli gigli di Francia bianchi su fondo azzurro, mobili di legno antichi, arazzi fiamminghi alle pareti, tende di velluto blu scuro. I Griffin erano benestanti, non c’era nulla da dire.
Ma erano solo questo?
Lo avrebbe scoperto da lì a pochi minuti: Samuel Griffin con la moglie e un’altra giovane donna lo attendevano in piedi, vicino al camino.
Dyce deglutì.


Alle undici, Margaret, la governante di casa Griffin, annunciò il dottor Dyce. Samuel ebbe un cenno di assenso, poi si rivolse a Joanne ed Ester che attendevano con lui nella sala da pranzo.
«Deve restare vivo. Mi raccomando: non dovete lasciare alcuna traccia».
Ester sollevò i suoi immensi occhi castani su di lui. «Come ordini». Un sorriso sensuale, ferino, apparve sul suo volto così soave e lo distorse completamente. Joanne annuì rapida e fece un cenno con la mano.
«Sssh! E’ qui!».
Un istante dopo, la porta si aprì e George Dyce entrò nella stanza. Aveva le scarpe umide e il bavero della giacca spruzzato di pioggia, gli occhiali bagnati. Pioveva.
Go to fullsize image«Benvenuto nella nostra casa, dottor Dyce».
L’uomo accennò un sorriso di circostanza. Sembrava in imbarazzo, persino a disagio.
«Conoscete già la cugina di mia moglie, Ester Hates?» chiese Samuel, indicandogli una sedia.
Il medico lanciò uno sguardo fugace alla ragazza che ricambiò con un cenno del capo. Un’occhiata troppo fugace, quasi allarmata. «Solo di vista. È un piacere conoscerla, Miss Hates».
Joanne cercò gli occhi di Samuel, li trovò, e per un istante rimasero legati; poi distolsero lo sguardo all’unisono.
Dyce continuò a sorridere, impacciato. Parlò delle novità politiche e del tempo: l’autunno era arrivato all’improvviso e la temperatura si era abbassata in maniera repentina, causando un gran numero di malanni.
Samuel Griffin lanciò un lungo sguardo alla moglie: in esso si mescolarono apprensione e disagio, come un vero marito innamorato.
«Bene. Credo… sia venuto il momento di lasciarvi soli. Io attenderò qui».
Dyce tolse gli occhiali per massaggiarsi le palpebre. «Giusto. Se vostra moglie volesse accomodarsi nella sua camera…» 
Joanne ne approfittò e sollevò lo sguardo verso Samuel. «Potreste accompagnarmi voi, mio caro?» chiese, con voce esitante. Lui annuì, precedendo il medico lungo il corridoio.
«Sospetta qualcosa, ne sono certa» mormorò Joanne, seguita da Ester. «Ci sta osservando con troppa attenzione» continuò quando Samuel si chinò a sfiorarle la mano con un bacio e annuì con gli occhi.
Giunti nella stanza da letto, le due donne si sedettero sulla sponda del letto tenendosi per mano, come se Joanne cercasse conforto nella stretta della cugina. Dyce le pose quesiti che esigevano una risposta immediata. La interrogò rapidamente, incalzandola, come se si aspettasse di coglierla in fallo.
D’istinto, Joanne si concentrò sulla voce dell’uomo, senza far troppo caso alle parole. Suoni, vibrazioni, sfumature, tutto ciò che potesse rivelare incertezza o nervosismo.
La sua voce era piena di tensione.
«Mangiate di buon appetito?». Molta tensione. Anomala.
«Sì. Faccio una vita tranquilla».
«Il vostro ciclo è regolare? Quando è stato l’ultimo?». Curiosità. Tanta.
«Sì, è molto preciso. L’ultimo è stato tre settimane fa».
L’uomo sospirò. «Adesso dovrò chiedere qualcosa di molto riservato».
Joanne capì. Si stampò sul viso un’aria contrita e imbarazzata, mentre Ester usciva dalla stanza.
Dyce si mise davanti a lei, gambe piantate a terra e mani chiuse, quasi in preghiera. «Perdonerete la mia intrusione nella vostra intimità ma credo possiate capire che queste informazioni sono indispensabili per comprendere le cause della vostra sterilità. Vostro marito… ha difficoltà di alcun genere nell’atto coniugale? Riesce a portarlo a termine?».
Joanne abbassò gli occhi sulle mani che teneva incrociate sul grembo, meditabonda: per un istante si chiese come potesse essere Samuel come amante. Dovette costringersi a soffocare un risolino nervoso.
«Nessuna difficoltà». L’idea di un altro corpo si affacciò alla sua mente. Un altro viso, un uomo che amava. La scacciò, irritata con se stessa e si costrinse a rimanere concentrata.
«Ogni quante volte vostro marito vi chiede di compiere il vostro dovere di sposa?».
Quante volte cosa? Facevano sesso? Che razza di domanda era quella?
Sperò che nessuno di loro stesse origliando o l’avrebbero presa in giro per giorni. Strinse le labbra per non ridere. «Circa due volte la settimana».
«E vostro marito emette seme durante l’atto?».
Questa poi! I maschi della sua specie non emettevano seme.
«Sì».
«Adesso signora Griffin, devo chiedervi di stendervi a letto e di lasciarvi visitare. Prima vi ausculterò il petto e verificherò la vostra complessione, per capire se il vostro fisico sia adatto o meno a sostenere una gravidanza, poi procederò a una visita personale».
Joanne alzò la testa guardandolo fisso negli occhi. Non permettergli di toccarla e sentire che era fredda, molto più fredda di qualunque essere umano. Che non c’era alcun suono in lei. Che il suo cuore non batteva più.
Che il suo era un corpo morto.


Dyce era nervoso. Si sentiva soffocare, aveva la nausea, il corpo era scosso da brividi freddi quasi come il giorno in cui aveva eseguito la sua prima dissezione in un’aula gremita di studenti e professori. Lì, però c’era solo una giovane signora timida che non riusciva ad avere un figlio.
O no?
Quella donna, adesso, lo stava guardando intensamente negli occhi, in silenzio.
Perché mi sta fissando così?
D’improvviso, quello che era un sospetto, divenne certezza.
Erano lì. Era lei.
Erano “loro”.
La mente di George Dyce si aprì, squarciata da una lama di consapevolezza: Griffin, sua moglie, forse sua cugina… e chi altro?
Quanti altri?
Il cuore iniziò a battere violentemente contro lo sterno, mozzandogli il respiro. Percepì la tensione innalzarsi dentro di lui, le mani gli tremavano e un rivolo di sudore gli scivolò lungo la fronte. Cercò di sottrarsi allo sguardo della donna, affaccendandosi a cercare gli strumenti nella borsa.
Dio mio, aveva ragione, allora! Erano anche a Edimburgo! Erano in tre o quattro, almeno… e chissà da quanto tempo!
Ebbe un capogiro. Si appoggiò con la mano alla spalliera della sedia, poi si voltò, abbozzando un sorriso storto, più simile a una smorfia sghemba.
Sobbalzò: Joanne Griffin era a pochi passi da lui e lo stava fissando, placida, bellissima e inquietante.
«State male, dottore? Siete impallidito».
«Non è nulla» mormorò, allontanandosi di alcuni passi, a disagio.
La donna lo seguì con un sorriso appena accennato sulle labbra rosse socchiuse. Gli poggiò una mano sul braccio, premurosa. «Sembrate accaldato. Sedetevi, vi farò portare un bicchier d’acqua».
Dyce scosse la testa, respingendola con una mano. «No. Non vi avvicinate». Cercò di bloccarla, mentre una paura strisciante saliva dal petto a stringergli la gola.
Ma Joanne avanzò di un altro passo tendendogli la mano: i suoi occhi erano fissi in quelli del medico. Dyce sentì il panico dilagargli nella mente, intuì che stava per perdere il controllo.
Di che colore erano i suoi occhi? Azzurri. No…
Non riusciva a capirlo. Fu sopraffatto da una sensazione di stupore ovattato che soppiantò l’orrore; subito dopo, sentì il corpo cedere di schianto. Scivolò a terra senza un lamento, mentre la coscienza di sé veniva annullata da quello sguardo intenso, profondo, sconvolgente.
Nella sua mente, una nebbia nera e vischiosa ricoprì ogni pensiero, paralizzando le sue reazioni: gli mancò l’aria, non riusciva più a respirare.
Vide Joanne chinarsi su di lui. Un istante dopo, anche quel viso divenne nebbia.
Sentì qualcosa entrare nella sua mente, simile a una mano fredda che gli rovistava dentro il cranio.
L’ultimo pensiero cosciente fu il colore degli occhi di quella donna.
Azzurri. Gli occhi di Joanne Griffin erano azzurri.
( Il 5° capitolo continua... )

2 commenti:

  1. Grazie per questo quinto capitolo! Ho letto i primi quattro e sono rimasta letteralmente affascinata dalle atmosfere che sai creare,dalle descrizioni dettagliate e mai noiose che fai degli ambienti in cui si svolge l'azione,dal modo in cui narri le vicende e le storie personali dei protagonisti un modo cosi' ricercato eppure facilmente comprensibile e ovviamente da loro : Oliver,Samuel,Joanne...
    Davvero complimenti!

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  2. Accidenti, adesso spezzi anche i capitoli... mi vuoi inagonia completa!
    Sempre bravissima...

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