venerdì 19 novembre 2010

Auld Reekie #6

Non si può andare contro il proprio destino.
Il cerchio si stringe.




6


Edimburgo

George Dyce camminò a lungo. La sua mente non era in grado di ricordare la strada di casa: si lasciò spintonare dai passanti, mettendo i piedi in mezzo ai liquami, gli occhi fissi nel vuoto, mentre i passanti gli scoccavano sguardi pieni di commiserazione.
Solo quando raggiunse Calton Road riuscì a recuperare un po’ di lucidità. Si fermò appoggiandosi al muro e si costrinse a respirare profondamente per calmarsi; poi guardò attorno a sé, accorgendosi per la prima volta di dove si trovasse. Arrivato ad Albany street, aveva recuperato il completo controllo.
Salì in fretta i gradini della bella palazzina georgiana, come se volesse fuggire dalla strada. Le voci petulanti delle sue figlie di sedici e diciotto anni lo raggiunsero, rassicurandolo, quasi confortandolo: discutevano per qualcosa che aveva a che fare con dei cappellini. Era bello essere a casa, pensò avviandosi verso il piano superiore.
«Dottore?». La voce ansiosa della governante lo raggiunse a metà delle scale.
«Dica, Emmeline», sospirò esasperato, sfilandosi i guanti.
«Siete atteso, signore».
«Visite?», grugnì. Era contrariato, stanco e desiderava solo riposare per tutto il pomeriggio.
«Sì, signore. Due gentiluomini da Londra». Gli porse due biglietti da visita.
Dyce sobbalzò. Burgess e Corbridge? Qui?
«Dove sono?» chiese, scendendo a precipizio i gradini.
«Nel salottino con vostra moglie».
Entrò nel salone a passi rapidi. Sua moglie lo squadrò con i grandi occhi castani spalancati e uno sguardo equamente diviso tra perplessità e spavento. Matronale e dignitosa, era rimasta senza parole dinanzi all’irruzione improvvisa, senza capire perché suo marito fosse tanto pallido. Muriel Dyce, donnetta prosaica e priva di immaginazione, non poteva immaginare chi fossero davvero quegli amici di suo marito.
Perché Michael Burgess e Spencer Corbridge non erano solo compagni di vecchia data di George Dyce. Erano i capi della Fratellanza della Luce.
Il medico congedò la moglie con un sorriso di circostanza e invitò i due amici a sedersi con lui al tavolo. Compagni di bagordi nell’età dell’università, avevano cementato la loro amicizia circa vent’anni addietro, quando si erano scontrati con l’impossibile.
«Quando siete arrivati?».
A rispondere fu Corbridge. Alto e sottile, viso allungato di un pallore quasi grigiastro, occhi scuri, piccoli baffetti; non sembrava essere molto forte, anzi. Tra i quaranta e cinquant’anni, medico come Dyce, esercitava a Londra e godeva di ottima fama. Era una delle persone verso cui George nutriva maggior stima… e timore. Bastava fissare quegli occhi di ghiaietto per capire che era un uomo da non prendere sottogamba.
«Ieri sera tardi. Siamo stati a Newcastle, poi abbiamo pensato di venire a dare un’occhiata fin quassù».
«Bene. Perché… pensavo di scrivervi. Credo di aver trovato… degli indizi che riportano a ciò che avete trovato a Londra». George si versò un bicchiere generoso di brandy e lo bevve a larghi sorsi. Di solito, non beveva tanto, ma quel giorno tutto il mondo sembrava aver deciso di andare per conto suo senza chiedere il permesso.
«Ti riferisci alla mia lettera?» domandò Michael Burgess, appollaiandosi sul bracciolo della poltrona occupata da Dyce. Capelli color sabbia, muscoloso quanto poteva esserlo un ex campione di canottaggio di Cambridge, occhi verdi pungenti, carnagione chiara, aveva la stessa età di George Dyce. Con lui il tempo era stato indulgente: fascinoso, scapolo impenitente e notaio presso St. Albans, aveva un’espressione indolente che dissimulava una capacità di osservazione fuori dal comune. Aveva anche una leggera zoppia, conseguenza di una fuga precipitosa sui tetti di Londra, mentre era in caccia di uno dei suoi nemici.
«Esatto. Ho trovato una coincidenza tra ciò che tu mi avevi scritto e le notizie che mi ha comunicato James Faber da York. Si tratta di una lettera». Dyce parlò in fretta, sottovoce, lo sguardo che saettava dall’uno all’altro.
Burgess strinse gli occhi, curioso «Faber? Il nostro Fratello osservatore di York? E cosa è accaduto?».
«Pochi giorni fa, i Fratelli dello Yorkshire hanno trovato uno di quei mostri, l’hanno catturato ed eliminato. Portava con sé della corrispondenza: sembra fosse un corriere o qualcosa del genere. Non ne avete saputo nulla?».
«No. Siamo lontani da Londra da parecchio e non abbiamo avuto comunicazioni recenti da York», rispose Burgess, disorientato. Corbridge ebbe una smorfia perplessa.
D’improvviso, Dyce si rilassò nella poltrona con un sospiro pesante. «Allora credo che ci aspetti un lungo pomeriggio. Ho molte notizie da darvi».
Corbridge si accomodò su una panca di fronte agli altri due. «Procediamo con ordine, George. Faber ti ha scritto che quell’essere immondo portava delle lettere. Per chi?».
«Si tratta di una missiva indirizzata al Master delle Highlands. L’indirizzo è Edimburgo, Canongate, 15».
George fece una pausa per riprendere fiato. Sfilò gli occhiali, mentre le ipotesi nebulose che gli affollavano il cervello assumevano contorni nitidi. E lo spaventavano, sempre più.
«Ieri è arrivata una lettera da Richard Tellman, il vostro sostituto a Londra. Mi ha scritto che nella cassaforte che avete trovato il mese scorso nel covo distrutto, c’erano delle lettere tra il capo della comunità londinese e altri Masters. Due di queste provenivano da Edimburgo».
Burgess alzò le sopracciglia, stupefatto «Davvero? Siamo partiti dopo aver distrutto il rifugio di Londra e non abbiamo avuto il tempo di visionare i documenti».
George mosse le mani per bloccarlo. «Ascolta: le lettere provenienti da Edimburgo sono datate 1782, dunque hanno più di cinquant’anni. Una di queste è la comunicazione dell’acquisizione di una quota di proprietà una società di commercio. La transazione era stata curata da un avvocato, tale O. W. G. L’altra, una missiva privata, è a firma di un tale S. Per entrambe l’indirizzo era Canongate 15».
Con un sospiro spezzato, Spencer Corbridge si appoggiò con la schiena contro il muro. «Coincidenza a dir poco sospetta», commentò asciutto.
Dyce lanciò un lungo sguardo ai due: la frizzante sensazione di trionfo che avvertiva si mescolò a una paura latente che gli serpeggiava nell’anima, ai margini della coscienza. Continuò a raccontare.
«Non è ancora finita: alcuni giorni fa un uomo ha chiesto un consulto per sua moglie, poiché teme sia sterile. Si chiama Griffin, si è trasferito in città dal nord della Scozia circa dieci anni fa. Da quello stesso periodo, abitano con loro dei cugini della moglie: due donne e un uomo per l’esattezza. Non ho fatto caso subito all’indirizzo ma quando ieri ho ricevuto la lettera di Richard Tellman, ho fatto un salto sulla sedia».
«Fammi indovinare: il numero 15 di Canongate?». Burgess tirò fuori dalla tasca della giacca un astuccio portasigari e iniziò a fumare. George annuì in silenzio, poi si coprì il volto con le mani. Non sapeva come spiegare quello stato di malessere che l’aveva sconvolto, sin da quando era andato via dalla casa dei Griffin.
Proseguì, stanco, con gli occhi fissi sul pavimento. Le parole erano diventate difficili da pronunciare «Così ho pensato di approfittare della richiesta per dare un’occhiata, tentare di capire se potessero essere davvero… loro. ».
Dyce bevve un altro sorso di liquore e riprese a parlare. «Pensavo di scrivere un resoconto stasera, per chiedervi di venire qui… Perché di dubbi ne ho parecchi. Stamane ho visitato la moglie di Griffin e…».
Stavolta furono Burgess e Corbridge a sussultare. «Tu hai fatto che cosa?», guaì Corbridge.
Burgess afferrò George per il braccio, costringendolo a voltarsi. «Era viva?».
Un rivolo di angoscia scivolò lungo la schiena del medico. La risposta che la sua mente gli diede fu ; tuttavia un’altra sensazione, più profonda, viscerale, lo aggredì impedendogli di rispondere subito. Un malessere difficile da spiegare, un brivido freddo di panico di cui non riusciva a liberarsi in alcun modo.
«Sì», sussurrò incerto.
Spencer Corbridge lo fissò, studiandolo in silenzio. I suoi occhi brillavano come pietre bagnate in fondo a una scodella. «Potrebbe essere una schiava umana: a Cardiff ne abbiamo trovate due». Poi tornò a studiare il volto di George: pareva invecchiato di colpo. «Sei assolutamente sicuro che fosse viva?».
«Credo di sì», ammise George infine. Sospirò pesantemente. «Con questa visita non ho fatto altro che complicarmi la vita… ho così tanti dubbi!».
«Perché?», lo incalzò Michael.
«Le due donne che io ho conosciuto non sono diverse da mia moglie o dalle figlie. Vestono allo stesso modo, parlano come loro. Non hanno nulla di diverso, a parte il pallore e la bellezza>>.
«Le loro femmine sono sempre molto belle: si tratta di strategia di caccia, dovresti saperlo», interloquì Michael, soffiando una nuvola di fumo che si dissolse con lentezza. Poi sorrise, indolente. «Ti trovo un po’ arrugginito, George: una volta non avresti avuto tutte queste incertezze».
«Li hai visti mai mangiare? Fare qualcosa di umano?», lo incalzò Spencer.
Dyce si fermò a riflettere. Scosse la testa, dubbioso. «Non sono il tipo di persone che Muriel vuole frequentare, se capite cosa intendo. Tuttavia, stamane Griffin ha bevuto davanti a me. In realtà, l’ho quasi sfidato a bere il suo Porto: non ne aveva toccato una goccia».
«La servitù?», proseguì Corbridge.
«Hanno una governante, una cuoca, una cameriera e una sguattera di cucina, che non dormono in casa; possiedono una carrozza e dei cavalli. Il fatto che abbiano della servitù per la cucina è uno dei dati che mi ha lasciato più perplesso», considerò Dyce con una smorfia.
«Potrebbero fingere di mangiare: a Londra, il loro capo aveva uno stuolo di servitori umani che non hanno mai sospettato nulla. E poi, qui a Edimburgo non è così difficile liberarsi del cibo: ho visto gettare di tutto dalle finestre», commentò Michael, sarcastico. «Dovremmo saperne di più. C’è modo di investigare su di loro senza destare sospetti?».
George fece una smorfia, dubbioso. «Sarà difficile. Notoriamente, Samuel Griffin è molto riservato e…».
Le parole gli morirono in gola, ghiacciandosi. Si portò la mano alla bocca. Samuel Griffin.
Samuel.
S., Edimburgo Canongate 15
Burgess lo fissò con occhi spalancati. «S….», bisbigliò, attonito. «S è l’iniziale di Samuel». Corbridge lasciò scorrere lo sguardo dall’uno all’altro, gelido. «Mutano il cognome, spariscono per anni, ma non rinunciano mai al loro vero nome».
George Dyce si passò la mano davanti agli occhi, quasi tentando di svegliarsi da quel sogno strampalato. Non era possibile. Era folle. Di più: irreale.
Eppure, era perfettamente logico. Tutto andava al suo posto in quel puzzle così assurdo.
Erano lì, per davvero.
Avevano trovato i vampiri di Edimburgo.

1 commento:

  1. Ma come si fa a tifare per i cattivi :-O
    Tutta colpa della tua bella penna!

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