giovedì 14 ottobre 2010

AULD REEKIE #2

2

Samuel Griffin era ricco abbastanza da potersi permettere un intero edificio nel cuore di Edimburgo al numero quindici di Canongate. Era la sua casa, arredata con eleganza, grazie a Joanne e al suo gusto impeccabile. L’ingresso era stretto ma accogliente, con il pavimento di legno e la carta da parati color ambra; in esso si apriva un corridoio; a destra, una scala di legno portava al piano superiore e alle camere da letto
Al suo arrivo, una cameriera fece capolino dal sottoscala: indossava una cuffia e un piccolo grembiule bianco su una gonna a righe; teneva gli occhi bassi, quasi intimorita dai suoi padroni.
«Signora Joanne» annunciò con una riverenza, «nel salottino vi attendono le vostre cugine, le signorine Hates. E’ giunto anche il vostro avvocato, signor Griffin», disse poi, rivolgendosi verso Samuel, il padrone di casa.
Questi scambiò una rapida occhiata di sorpresa con Will. «Il signor Burnes? Dov’è?».
«Vi attende nel vostro studio».
Una scala immersa nella penombra li portò alle stanze sotto il livello della strada; i due raggiunsero in fretta una stanza dal soffitto basso che si affacciava su un cortile ingombro di merci; tutte le pareti, dal soffitto al pavimento di pietra, erano ricoperte di libri. Solo una finestra chiusa da inferriate gettava una luce sbiadita sulla scrivania di quercia, stretta contro un angolo.
Nell’aria ristagnava l’aroma di cuoio, colla e legno misto a un altro odore più opprimente: umidità, o forse il tanfo che ammorbava la città vecchia di Edimburgo, dove non vi era differenza tra strade e fogna.
C’erano dei banchi per la contabilità al centro della stanza, ingombri di registri e scartoffie, graffiati dal tempo, macchiati d’inchiostro. Alcuni volumi erano spalancati. Qualcuno li stava consultando.
Un uomo.
«Solerte come sempre, il nostro avvocato», constatò Will, sarcastico.
Quello alzò la testa, mentre la porta si chiudeva con uno scatto sordo. Alto, vestito di scuro, fissò i due uomini per qualche istante, rimanendo impassibile. Lasciò che Samuel si accomodasse dietro la scrivania; poi si avvicinò a passi lenti, sedendosi di fronte a Will.
«Brutte notizie», si limitò ad annunciare con voce profonda, priva di inflessione. Gettò sul tavolo una sottile busta di carta ambrata. Il sigillo in ceralacca pendeva spezzato da un lembo, come una goccia di sangue.
«Ci avrei giurato dopo aver visto la tua faccia. Te l’ha mai detto nessuno che ti vesti come un becchino?». Le spalle potenti di Will furono scosse da una risata. «Marsina scura, gilet grigio, pantaloni neri… Un po’ di colore non guasterebbe, Oliver».
«Si chiama abbigliamento professionale, Will. Non pretendo che tu capisca ma è ciò che gli avvocati indossano».
Oliver Burnes aveva risposto senza enfasi, accompagnando le parole con un’occhiata di sufficienza e il tono di chi è abituato a sentire sciocchezze: conosceva Will Munro e le sue battute da troppo tempo per offendersi. Lui e Samuel Griffin erano i suoi migliori clienti.
E anche qualcosa di più.
Oliver era un uomo dai tratti eleganti. Capelli neri, appena spruzzati di bianco, fisico asciutto, mani lunghe e curate, il viso, regolare, quasi altero. Infine, i suoi occhi. Sconvolgenti: erano di un curioso grigio argento, tanto chiari da essere trasparenti. Inespressivi. Non si poteva fissarlo senza sentirsi costretti ad abbassare i propri occhi: sembrava poter trapassare la mente di chiunque lo fissasse troppo a lungo.
Samuel lesse in fretta e imprecò, accartocciando il foglio. Chiuse gli occhi per un istante.
«Quando è arrivata?».
«Stamane, al mio studio, con il corriere diretto da Londra».
Un silenzio pesante cadde nella stanza. Will prese la lettera, lisciandola con le mani. La scorse, poi inveì a sua volta.
«Dannazione!» esclamò, sollevando gli occhi verso Oliver.
Quello rispose con uno sguardo tagliente. «Hanno ricominciato la caccia. Si stanno muovendo verso nord». L’avvocato si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse le dita a piramide, lanciando una lunga, seria occhiata all’altro. «Verso di noi».
Samuel si alzò di scatto e prese a camminare a capo chino, pensieroso. Il suono dei suoi tacchi riempì il silenzio che era caduto nella stanza. Stava con le braccia conserte, gli occhi socchiusi. Il viso, indifferente sino a poco prima, era contratto, teso. Qualcosa, rabbia forse, affiorò per un istante dai suoi occhi azzurri.
«Si sono riorganizzati e rimessi in forze, dopo quello che è accaduto vent’anni fa con Lady Rostwood» considerò Will, meditabondo.
«Hanno imparato dai loro errori: nessun contatto personale, indagini rigorose e attacco a sorpresa, a quanto riferiscono i nostri amici del sud. Hanno osservato, colpito e eliminato». Oliver accavallò le gambe e sollevò lo sguardo dalle sue mani. «É incredibile che riescano a trovare ancora degli accoliti. Devono essere molto convincenti», commentò, pungente.
Samuel strinse le labbra. Sul suo viso si alternavano collera, ira e tensione. Alla fine, fu quest’ultima a prevalere. Aprì la porta e chiamò la governante.
«Margaret! Dica a mia moglie di raggiungermi subito nello studio».
Quando Joanne giunse nella stanza, Oliver si alzò per farla accomodare ma lei lo bloccò con un gesto. Sollevò le sopracciglia in una muta richiesta di spiegazioni.
Samuel le porse la lettera. «Leggi».
Il colorito di Joanne divenne diafano, mentre le labbra rosse si stringevano fino a divenire una linea sottile.
«Che possano essere maledetti…» bisbigliò, in tono appena udibile. Alzò gli occhi sui tre uomini che la fissavano. «Hanno attaccato York e Londra nel giro di una settimana; adesso si stanno spostando verso Newcastle, dopo di che giungeranno qui. Dobbiamo anticipare la partenza, Samuel».
La ragazza stava in piedi, le mani incrociate sul ventre. Gli occhi avevano una durezza adamantina, stridente su quel viso così delicato.
Samuel tornò a sedersi.
Non avrebbe lasciato Edimburgo senza lottare. I Fratelli della Luce non lo avrebbero scacciato dalla sua terra. Né lui… né i suoi.
Un piano rischioso, folle si stava delineando nella sua mente.
«Conosco il loro osservatore in città. Lo metterò sotto sorveglianza: dobbiamo capire se sospetta già di noi e, per farlo, dobbiamo attirarlo qui. Posso contare sulla tua collaborazione, Joanne?».
La ragazza annuì, poi sorrise divertita socchiudendo le labbra. Denti bianchissimi scintillarono nella penombra.
Samuel la fissò per un istante, chiedendole con gli occhi socchiusi il perché di quella risata.
«Nulla…», rispose lei, mentre il suo sorriso diventava largo. E inquietante. «Pensavo cosa direbbero i nostri vicini se sapessero della nostra… natura. E’ una cosa che mi diverte».
Samuel scosse la testa irritato, mentre sul viso di Will passava una fugace espressione di disappunto. In quel momento, nessuno era dell’umore adatto per gli scherzi, neanche lui.
«Sono lieto che tu riesca a cogliere il lato comico della situazione, Joanne ma stavolta la faccenda è seria. Rischiamo l’esistenza»
La ragazza cambiò espressione, colpita da quel rimprovero, mentre i suoi occhi chiari si riempivano di una luce arrogante. Alzò la veste di mussola beige fino all’anca, scoprendo la lunga gamba bianca e dei calzoncini aderenti di cotone, ben diversi dai goffi mutandoni che le altre donne portavano.
I tre sussultarono a quel gesto.
«Pensi che non sappia come affrontarli?» chiese diretta, guardandoli in faccia.
Una spada, corta e affilata, era legata alla coscia; l’impugnatura di cuoio arrivava quasi al bacino. Lasciò cadere la gonna con un sorriso di sfida: la linea morbida della veste celava completamente l’arma e la rendeva uguale a qualunque giovane signora della ricca borghesia di Edimburgo. Una giovane e bella donna, sposata a un ricco esportatore di merci. Un matrimonio felice, cui era mancata la gioia di un figlio.
Ma lei non era come le altre donne.
Nessuno era come lei.


Nulla da fare. Nonostante i profumi e le candele di vera cera, l’odore di letame e sporcizia che proveniva dalla strada arrivava fino al salotto di casa Mc Coy appestando l’aria.
Un pianoforte e un’arpa erano posti al centro della stanza, in attesa che l’esibizione della figlia dei Mc Coy avesse inizio. Gli ospiti arrivavano a piccoli gruppi nel salone, tappezzato in color oro e verde acceso, con candelabri dorati grossi come rami d’albero. Impressionanti stucchi ornavano il soffitto; le sedie erano massicce, rivestite di un cinz color marrone che strideva con il verde della carta da parati.
Pacchiani, considerò Joanne. Tutto era appariscente, ai confini della volgarità in quella stanza. Cosa ci si poteva aspettare dalla figlia di una sarta che aveva sposato un piccolo armatore, si chiese Joanne? Era una piccola donna troppo ingioiellata, che aveva un dubbio gusto nell’arredare e un gusto ancora peggiore nello scegliere i vestiti.
Ma non era lì per divertirsi a osservare gli altri. Guardò la pendola in fondo alla sala, poi scosse la testa e con una leggera pressione sul braccio fece voltare Samuel.
«Temo che il nostro segugio non verrà» bisbigliò dietro il ventaglio di seta.
Samuel rise, come se lei avesse detto qualcosa di molto spiritoso e rispose in un soffio. «Verrà, invece. Zach l’ha seguito tutto il giorno e l’ha udito dire che sarebbe venuto qui con sua moglie. Se non verrà, troveremo un altro modo per farlo venire nella nostra abitazione e… Oh, dottor Dyce. Che piacere vederla!».
Samuel cambiò tono ed espressione con una rapidità sconcertante e si diresse verso un gentiluomo fermo sulla soglia. Quello lo squadrò strizzando gli occhi, sospettoso. Non aveva ancora raggiunto la mezza età: portava minuscoli occhiali d’oro che velavano due stretti occhi verdi, scrutatori. I capelli, biondi e folti, erano pettinati all’indietro; l’abito era di ottimo taglio. Non era molto alto ma si muoveva con sicurezza, quasi sapesse di essere un gradino sopra il resto del mondo. Strinse la mano che Samuel gli porgeva con una stretta forte, sebbene un velo di esitazione, di perplessità forse, gli avesse velato lo sguardo.
«Signor Griffin. È piacere mio vedere lei e la sua incantevole signora».
Joanne fece un grazioso cenno con il capo e represso un sospiro. Detestava comportarsi da bambolina.
«È un onore per noi. Perdoni l’invadenza ma… posso chiedervi un breve colloquio in privato?».
George Dyce ebbe un cenno di assenso. Nei suoi occhi brillava curiosità mista a diffidenza. Dyce era un medico conosciuto a Edimburgo: i suoi pareri erano cercati ovunque tra la borghesia e la nobiltà. Aveva acquistato una bella casa a Charlotte Square, nella New Town e l’aveva arredata con ogni cura; lì, ogni giovedì sera, sua moglie teneva salotto con intellettuali e musicisti della città.
Joanne e Samuel si scambiarono un’occhiata complice. Si spostarono presso una finestra per parlare con maggiore riservatezza e si fermarono presso una pesante tenda di broccato.
«Sarò breve per non tediarvi, dottore… Come di certo saprete, io e mia moglie siamo sposati da alcuni anni, ma purtroppo la nostra unione non è stata allietata da alcuna nascita. Mia moglie non è mai riuscita a concepire, per essere ancora più precisi. A questo punto ho ritenuto opportuno capire le cause di tale mancanza».
Samuel aveva parlato mescolando nella voce reticenza e disappunto, con un tono dimesso. Opportunamente, Joanne chinò la testa e si stampò in viso l’espressione rammaricata che il momento richiedeva.
«Oh, bene… ma questa non è la sede adatta. Non avete consultato una levatrice?». Il medico si guardò attorno, in imbarazzo. Non si aspettava una simile richiesta.
«Sì, ma non è stata in grado di dire alcunché, e per questo motivo, abbiamo deciso di rivolgerci a voi che siete un luminare. Capisco e condivido il vostro disagio. Mia moglie è orfana e non ha altre parenti, se non le signorine Hates. Certamente, non potrebbe chiedere a due fanciulle innocenti di parlare con voi, dunque è il mio compito di marito assisterla e curarla».
«Capisco». Il medico assentì, pieno di comprensione. Si trovava bene nella parte del benefattore dell’umanità: era facile esserlo, se si ricevevano onorari pesanti come i suoi. L’uomo continuò accarezzandosi il mento con la mano.
«Potrei venire presso la vostra abitazione per una visita accurata».
«Nessun incomodo. Il benessere della mia adorata Joanne viene prima di tutto».
«Le farò sapere la data, allora».
«Grazie. E’ un vero sollievo per me sapere che mia moglie sarà affidata alle vostre cure».
Appena Dyce si allontanò, Samuel prese la mano di Joanne, portandosela alle labbra con uno sguardo premuroso. «Visto? Ha accettato senza problemi», considerò, trionfante.
«Ci sta guardando ancora», sussurrò lei, voltandosi verso la finestra aperta. Entrava un vento freddo, mescolato al fetore di sterco. Numerose carrozze erano ferme all’ingresso e l’odore dei cavalli giungeva fino a loro. Sollevò un angolo delle labbra in un fugace sorriso ironico.
«Sei stato maledettamente convincente. Un altro po’ e avrei creduto anch’io di essere una povera mogliettina sterile che si strugge assieme al marito innamorato».
«E tu? Occhi bassi, in silenzio, contegnosa... sei persino arrossita!», mormorò lui, accompagnandola verso la sedia.
«È solo un praticone borioso. Non sarà difficile metterlo nel sacco», concluse lei con disprezzo. Si scambiarono uno sguardo scintillante, mentre il pianista prendeva posto dinanzi allo strumento. Solo Joanne percepì il sottile divertimento celato negli occhi socchiusi di Samuel, simili a quelli di un gatto. Lo conosceva da tempo.
Moltissimo tempo.

NON PERDETE IL PROSSIMO CAPITOLO! STAY TUNED!

5 commenti:

  1. brava Stefy...mi piace anche il modo di descrivere gli ambienti tramite gli occhi dei personaggi!

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  2. La storia si articola sempre di più. Mi piace la ricchezza di particolari nel descrivere i personaggi e le situazioni. Complimenti. Aspetto il prossimo capitolo. Simona

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  3. Ciao Stefania, ho letto del tuo romanzo a puntate qui http://www.booksblog.it/post/6791/auld-reekie-una-vampire-story-a-puntate-di-stefania-auci
    e, incuriosita, sono venuta a dare un'occhiata. Complimenti! Scrivi davvero molto bene ^^
    Attendo di leggere i prossimi capitoli
    Ludovica

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  4. Ciao Stefania, anch'io ho letto del tuo romanzo su booksblog,
    complimenti!!!
    Raffaela

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