venerdì 22 ottobre 2010

Auld Reekie #3

3


Anteprima immagineIl sole morente filtrava attraverso le tende di velluto azzurro che schermavano le finestre al numero 15 di Canongate. Una stretta lama di luce illuminava la credenza di legno scuro su cui troneggiavano liquori e una caraffa d’acqua.
Nessun membro della servitù era presente.
Seduto a capotavola, Samuel teneva tra le dita un bicchiere pieno per metà di whiskey. Faceva roteare il liquore senza berlo: aveva un profumo antico, di mare e di torba, e gli riportava alla mente sensazioni che perdute. Osservava il liquido ambrato in silenzio, quasi potesse leggervi il futuro.
Quel pensiero gli strappò una smorfia simile a un sorriso amaro. Lui non aveva un futuro: il suo destino era già scritto.
Oggi come ieri, domani come oggi.
Come un serpente che cambia pelle ma che rimane sempre uguale a se stesso.
Scrutò il proprio riflesso deformato dal bicchiere panciuto. Non c’era poi molto che potesse cambiare nella sua vita: nulla e nessuno poteva modificare il passato, così come non poteva mutare quello di coloro che lo circondavano.
E nessuno avrebbe potuto cambiare il suo futuro.
O sì?
La risposta non venne e lui non si affannò a cercarla. Era così e basta. Aveva combattuto con tutte le forze contro il suo destino, lo aveva piegato a proprio favore. Non provava rimpianto per ciò che aveva perduto: sarebbe stato insensato, oltre che stupido.
Aveva forza e potere, invece, ben più di quanto avrebbe mai immaginato anni prima, quando era solo un montanaro che badava alle greggi. Aveva lottato per difendere ciò che possedeva. E così sarebbe stato per sempre…
Forse, si corresse con stizza, se coloro che li minacciavano non li avessero trovati e distrutti prima.
No. Non lo avrebbe mai permesso. Mai.
Poggiò il bicchiere sul tavolo con un colpo secco e sollevò gli occhi verso gli altri uomini presenti nella stanza.
«Dyce verrà qui. Joanne proverà a scoprire se la Fratellanza sta già facendo delle ricerche, e soprattutto, se sospettano già di noi».
Will corrugò la fronte, fissando i bicchieri sul tavolo, pieni di liquore che nessuno di loro aveva bevuto. «Avranno dei membri attivi in città?» considerò, sollevando gli occhi.
Samuel alzò lo sguardo verso uno dei due uomini seduti in fondo al tavolo, in penombra. «Sicuramente. Cercheremo di conoscere i loro nomi». Si rivolse a uno dei due uomini seduti all’altro capo del tavolo. «Zach?».
Due occhi verdi di muschio e legno lo fissarono intensamente. «Dimmi, Padre».
«Va’ a casa Dyce. Il dottore avrà un elenco dei confratelli: trovalo e scopri i loro nomi. Inoltre, rintraccia qualunque comunicazione della Fratellanza che provenga da Londra o da Cardiff».
L’uomo annuì. Mostrava all’incirca trent’anni; portava un piccolo pizzetto scuro, che sfiorò con due dita, meditabondo. Capelli castani legati dietro, viso allungato, fisico smilzo. Era vestito come un popolano: abiti lisi ma puliti. Sedeva dritto senza guardarsi attorno e parlava con tono basso, privo di accento.
«George Dyce è uno scienziato. Stento a credere che si sia fatto coinvolgere dai Fratelli della Luce in una loro crociata in un’epoca avanzata come questa».
«Il dottore non è solo un osservatore, Zach: è un ex cacciatore. Sa cogliere segni che gli altri umani non noterebbero nemmeno. Inoltre… conosce sin dall’università Burgess e Corbridge».
Nel sentire quei nomi, sguardi tesi corsero da una parte all’altra del tavolo.
Un silenzio irreale cadde nella stanza. Nessun suono. Nessun respiro.
«Sapranno già della nostra esistenza qui a Edimburgo?»
Fu Oliver a porre quella domanda, sollevando gli occhi glaciali dal bicchiere.
Samuel rispose dopo alcuni istanti, con lentezza.
«A mio avviso lo ritengono possibile: Edimburgo è la capitale della Scozia, ed è una città popolosa. Se hanno anche solo un sospetto, ci staranno alle costole finché non avranno la certezza assoluta e, a quel punto, colpiranno immediatamente. Se non riusciremo a batterli sul tempo, dovremo affrontarli» mormorò, alzando gli occhi simili a lapislazzuli. «E non ci sarà concesso alcun errore»


Accidenti al mondo intero! Bridget Tibbs scalciò via un topo che era sgusciato tra i piedi, lungo le scale che portavano al tugurio dove viveva. Lasciò alle spalle il sole morente che bagnava le facciate dei palazzi e iniziò a scendere nell’oscurità.
Era di pessimo umore, spaventata e avvilita.
Niente. Non aveva trovato un lavoro. Era riuscita a tirare su un piatto di stufato in una taverna lasciandosi mettere le mani addosso dal cuoco, ma nulla più: nessuno voleva dare lavoro alla sorella di un ladro impiccato.
«Maledizione a te, Joseph», imprecò. Suo fratello era stato un idiota a farsi arrestare e adesso che era morto, aveva lasciato lei a trascinare la carretta.
Una zaffata di fetore nauseante l’accolse appena giunse sottoterra: quello era il ventre di Edimburgo, di Auld Reekie, la vecchia puzzolente. Quei vicoli sotterranei erano il suo intestino molle e malato. Lei stessa era come un verme, un parassita che la infestava, come tutti i pezzenti che galleggiavano nelle fogne ai piedi del Castello.
L’umidità, laggiù, era la cosa peggiore. L’umidità e il freddo che entravano nelle ossa. E poi ancora la puzza, i topi, la sporcizia...
Si sfilò lo scialle e una massa sporca di riccioli scuri le scivolò sulle spalle. Rabbrividì, sentendo dei colpi di tosse stizzosi: era Mary, una vecchia mendicante. Prima o poi, anche quella avrebbe tirato le cuoia e finalmente avrebbe potuto dormire una notte in pace.
Trascinando i passi, arrivò fino a un arco scavato nella pietra, coperto da una tenda. Il vicolo che aveva percorso era stretto, buio, illuminato da torce che scoppiettavano, diffondendo una luce rossastra, metallica.
Sospirando, Bridget entrò nella stanza e strizzò i grandi occhi scuri per vedere dove metteva i piedi. Filtrava a malapena un po’ di luce dalla tenda e dal braciere che scaldava la stanza. Meglio così, pensò: almeno evitava di vedere il letamaio in cui viveva. Quattro pagliericci gettati lungo le pareti, delle ceste in cui tenevano i loro stracci, una madia sbrecciata che non conservava cibo da tempo.
Sua madre era rannicchiata a sonnecchiare in un angolo: stava così da due giorni, da quando aveva visto impiccare Joseph. Dei suoi fratelli, neanche l’ombra. Che andassero al diavolo anche loro, imprecò fra sé. Che spariscano, ingoiati dall’inferno e non si facciano più vedere.
Si lasciò cadere davanti al fuoco abbracciandosi le gambe. Era stanca.
«Hai portato qualcosa da mangiare, Brid?», chiese una vocetta acuta, alla sua destra.
La ragazza si voltò con lentezza. Due occhietti vispi, scuri come i suoi, la fissavano nel buio: era David, il più piccolo di tutti i suoi fratelli, raggomitolato in mezzo alla paglia.
Bridget annuì: qualcosa aveva, sì. Quel porco del cuoco si era voltato per mettere lo stufato nella ciotola e lei aveva afferrato un pezzo di pagnotta nascondendolo sotto il vestito. Mise la mano sotto la camicia e tirò fuori un pezzo di pane, spezzandolo con le mani sudice. Il bambino l’afferrò, arretrando contro il muro. Era vorace, ansioso di finire presto: temeva che i fratelli maggiori tornassero da lì a poco. Allora gliel’avrebbero rubato.
Bridget distolse lo sguardo, tornando a fissare la fiamma nel bacile di rame. Per quella sera, lei non avrebbe avuto fame, ma domani? E dopo? Avrebbe dovuto farsi di nuovo mettere le mani addosso? Non voleva. Piuttosto, sarebbe andata a rubare: persino il rischio di finire sulla forca era preferibile a quella miseria infame.
D’un tratto, la madre si voltò verso di lei e la fissò con occhi velati.
«Bridget, sei tu? E’ tornato Joseph?».
La ragazza aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse con uno scatto. A sua madre era definitivamente andato di volta il cervello da quando avevano tirato giù Joseph dalla forca. Si limitò ad allungarle un pezzo di pane.
«Sì, ma’. È già uscito. Ti ha lasciato del pane».
La donna, con il viso simile a una corteccia d’albero sbiancata dal sole, allungò la mano fino a trovare il pane: lo tastò, incerta, e poi lo ficcò in bocca mugolando.
Bridget deglutì a vuoto, mentre il sapore acre della rabbia le avvelenava la gola. Avrebbe avuto voglia di urlare: era arrabbiata con suo fratello che si era fatto arrestare e impiccare come un babbeo, con la madre che si era buttata addosso un secchio di lisciva, con un padre che neanche aveva conosciuto, con i suoi fratelli, dannati accattoni.
Con sé stessa.
A dirla tutta, avrebbe voluto esserci lei al posto di Joseph. A quest’ora, lui non stava a preoccuparsi di cosa mettere sotto i denti visto che i vermi stavano mettendo sotto i denti lui.
Dietro la tenda si mosse qualcuno, un’ombra leggera. La ragazza trasalì per un istante, poi tornò a guardare il fuoco; David si era allungato vicino a lei e si era rannicchiato contro le sue ginocchia per cercare un po’ di calore. Senza parlare, Bridget prese una coperta e lo coprì; poi lo spostò sul pagliericcio accanto alla madre, affinché lo tenesse caldo con il suo corpo. David protestò debolmente nel sonno e socchiuse gli occhi, stringendosi alla madre. La donna guardò il bambino con aria assente: da tempo non riconosceva più i figli più piccoli.
Carica d’insofferenza, Bridget decise di uscire. Se doveva andare all’inferno, tanto valeva iniziare subito a camminare.
David sollevò la testa. «Dove vai?» chiese con la vocina impastata dal sonno.
La sorella non rispose: si limitò a guardarlo per un istante, con la mano sulla tenda, il viso immerso nella penombra dorata di una torcia. Scosse la testa in silenzio.
Poi sparì.


Era ormai notte fonda. La casa immersa era nel silenzio; il crepitio delle fiamme era l’unica cosa che si udiva nella stanza buia. Le tende rosa carico erano tirate sulle finestre, le lenzuola ripiegate con le coperte.
Tutti gli altri erano fuori.
A caccia.
In casa c’era solo lei, e Samuel.
Joanne scostò dalla fronte i capelli sciolti e tornò a fissare la fiamma nel camino. Aveva freddo, un freddo gelido che non voleva andarsene e che giungeva sino all’anima. Si sedette a terra davanti al fuoco, abbracciandosi le ginocchia, guardando le fiamme senza vederle. Subito la pelle del suo viso perfetto divenne calda, i piedi e le braccia acquistarono un tepore piacevole.
Eppure, continuava a sentire freddo.
Un gelo che non sarebbe andato mai via, che partiva dal cuore e che arrivava fino al cervello.
Chiuse gli occhi. Il letto dietro di lei era pronto per la notte, con lo scaldino tra le coperte. Poteva coricarsi, ma non sarebbe servito a nulla. Non avrebbe dormito.
Non poteva.
Il freddo e l’amarezza non sarebbero andati via, mai. Non aveva senso rinviare oltre. Chiuse gli occhi e affrontò il suo buio.
Tutto era scaturito da qualcosa che lei non aveva mai voluto. Era semplicemente… accaduto. Aveva spezzato la sua vita, regalandole un’esistenza diversa, aveva dovuto affrontare tutto ciò che era successo, dopo.
Aprì di nuovo gli occhi, tornando a fissare le fiamme. Quel movimento continuo, mai uguale a se stesso la tranquillizzava, togliendole un po’ dell’amarezza che l’avvelenava. Strinse più forte le braccia attorno alle gambe.
Diamine! Si rimproverò, aspra. L’unica cosa certa che possedeva era la sua esistenza. Ciò che aveva subito era terribile, ma erano ormai trascorsi molti, moltissimi anni, e non poteva far altro che conservare i frammenti della sua anima.
Custodire gelosamente il ricordo di colei che era stata.
E proprio perché era tale, il passato non poteva essere cambiato.
«I tuoi soliti fantasmi, Joanne?».
La ragazza non si voltò nell’udire quella voce. Sentì il tonfo leggero della porta che si chiudeva e passi che si avvicinavano. Sorrise mesta, stringendosi nelle spalle.
«Fantasmi… Già».
Samuel scivolò accanto a lei con un movimento fluido. Si sedette e lasciò che Joanne gli appoggiasse la testa sulla spalla.
«Non pensi mai al passato, Samuel? A quello che siamo stati costretti ad abbandonare?»
L’uomo non rispose subito. Sistemò un ceppo con l’attizzatoio, tenendo gli occhi fissi sulla fiamma.
«Cambierebbe qualcosa, Jo?».
La donna sorrise: era il suo modo di chiamarla, quando erano stati giovani e inesperti. «Probabilmente no. Né io né tu abbiamo avuto possibilità di scelta. Lui… ci ha preso e basta».
«Nessuno di noi… né Zach, o Ester, o Lizzie ha avuto la possibilità di rifiutare. Siamo stati cambiati, soffrendo per ciò che abbiamo perduto. Per lungo tempo l’ho odiato per ciò che mi aveva fatto… Poi ho capito che non poteva essere altrimenti, che l’unico modo per sopravvivere era rinunciare a me stesso… e che questo era il mio destino».
Joanne scosse la testa, incerta. Colui che aveva distrutto le loro vite era ormai polvere da un secolo, eppure non riusciva a dimenticare la rabbia, la paura e l’angoscia che aveva provato. Non riusciva nemmeno a pronunciare il suo nome o chiamarlo con il titolo che gli spettava: Padre. Quell’essere li aveva strappati alle loro vite, li aveva catapultati in un’esistenza fatta di buio che non conoscevano, cui avevano dovuto aggrapparsi per sopravvivere.
O la morte… o “quella” esistenza.
Samuel, no. Da quando era divenuto il loro Padre, aveva agito in maniera opposta. Sapeva qual era la cosa più importante che possiede un uomo: la libertà di scegliere il proprio destino.
«Tu hai chiesto a Will e John. E anche Oliver, a suo modo, ha scelto di seguirti. Non hai agito come… lui».
Samuel scosse la testa. «Hai detto bene: loro hanno scelto. Hanno cambiato la loro natura e, per questo, non hanno ripensamenti o dubbi».
«Grazie a te».
Lui sorrise, quasi una smorfia. «Sentivo che era giusto».
Si scambiarono uno sguardo fugace: un’occhiata fatta di complicità, di ironia e amarezza, che non aveva nulla a che fare con il sesso o l’amicizia. Era affinità. Come guardarsi in uno specchio.
Joanne tornò ad appoggiare il capo sulla spalla di Samuel parlando con voce sommessa.
«A volte, mi piace essere ciò che sono: sento la forza del mio ruolo e ne sono fiera. So di cosa sono capace. Altre volte invece, non riesco a credere di essere diventata… questo. In certi momenti, mi sento stanca di dover affrontare una vita fatta di segreti e di buio. Vorrei tornare a essere solo Joanne Moore di Galashiel. Joanne… e basta».
Samuel chinò il capo, scrutandola per alcuni istanti. Sul viso, un’ombra di compatimento.
«Non è possibile. Non lo sarà mai più, per nessuno di noi» mormorò atono, lo sguardo perso nelle fiamme. «A noi è stato concesso più di quanto gli altri esseri umani possano immaginare. Siamo riusciti a resistere senza impazzire, senza lasciarci morire di dolore. Siamo sopravvissuti perché abbiamo la forza e la volontà per essere ciò che siamo».
E si voltò. I suoi occhi, all’improvviso, avevano una luce selvaggia, quasi compiaciuta.
«Caccia via i tuoi fantasmi, Joanne. Non permettere loro di schiacciarti o ti indeboliranno fino a distruggerti. Non voglio che accada: tu sei troppo importante per me e per tutti noi». Sorrise, sfiorandole il viso con il suo. «Sei la mia sorella prediletta: godi del potere che hai e vivi la tua condizione senza nostalgie inutili».
Joanne si raddrizzò, coprendosi il viso con le mani, come per lavare via i dubbi che la stavano corrodendo. Le parole di Samuel le entrarono nella testa lentamente, disperdendo rabbia e rimpianti. Lui aveva ragione: non poteva permettere al passato di interferire con il presente e con il futuro. Quello era ancora da scrivere e poteva essere cambiato.
«In questo momento è il mio capo a parlare o mio fratello?», chiese, con un’occhiata in tralice.
«Tuo fratello», rispose lui, e si volse a fissarla. La luce di compiacimento era stata sostituita nei suoi occhi da qualcos’altro: si erano fatti duri come zaffiri freddi e un’ombra di arroganza nuotava nel suo sguardo blu. Con uno scatto si alzò in piedi e le tese la mano.
«Vieni con me».
«Adesso?» chiese lei, spalancando gli occhi per la sorpresa, indicando la sua vestaglia.
«Subito».
Aprì la bocca per rifiutare ma non riuscì a farlo: l’invito era troppo eccitante. Era notte fonda e non usciva a caccia da più di tre sere.
Un brivido le percorse la schiena, ben più gelido del freddo che aveva provato poco prima. Samuel le venne dietro: sciolse il nastro che teneva legata la veste da camera e la sfilò giù lungo le braccia nude, delicato come un amante. Le prese la mano, tirandola verso la finestra. «Passeremo dai tetti: non voglio rischiare una doccia puzzolente».
Joanne rise. Una risata liberatoria, vitale. «Ci prenderanno per fantasmi!».
Samuel aprì la finestra, guardandosi attorno. «Meglio, non credi? Edimburgo è piena di fantasmi!». Si affacciò su un piccolo cortile, lo stesso su cui si dava il suo studio privato. «E poi, siamo più simili ai fantasmi che agli umani» considerò con un’alzata di sopracciglia sarcastica. Scivolò fuori con un solo movimento e sparì.
Joanne spense la candela accanto al letto, poi corse alla finestra e scavalcò con le lunghe gambe agili il davanzale. L’angoscia si era dissolta come vapore, assumendo i contorni sfumati di un pensiero fastidioso. Samuel l’attendeva, aggrappato alle pietre sporgenti sulla parete.
Una scarica di energia simile a una frustata le corse sottopelle. Fu un brivido sconvolgente che le causò una vertigine: era lì, su un muro a numerosi piedi d’altezza, e stava sfidando qualunque legge della natura. Era viva mentre tutto ciò che apparteneva al suo passato era morto.
Cenere.
«Allora? Dove mi porterai?» domandò a Samuel seguendolo su per il tetto. La camicia da notte si sollevò attorno alle gambe e il vento gelido, con una folata improvvisa, le scompigliò i capelli che mulinarono attorno al viso.
Samuel le indirizzò un sorriso malizioso, scintillante nel buio. «Voglio dare un’occhiata a una  ragazzina».
«Avrei dovuto immaginarlo» commentò Joanne sarcastica. 
Samuel ridacchiò. «Sai che amo il sangue giovane».
E infine arrivarono sul tetto.
Eccola lì Edimburgo, ai loro piedi. Tutto il Royal Mile, dal castello a Holyrood, dai Salisbury crags fino alle nuove case al nord. Bellissima e sporca, sovraffollata fino all’eccesso, buia, puzzolente, eppure splendida. Regale.
I tetti di ardesia risplendevano come piombo lucido sotto le stelle. Alcune nuvole invadevano il cielo da nord con una promessa di pioggia per il mattino seguente. Le lanterne delle ronde notturne spezzavano l’oscurità, dondolando al ritmo dei passi; il vento che spazzava la strada, produceva un suono lamentoso, fischiando tra i vicoli. E poi ancora voci, suoni, vita che si mescolava sotto di loro, trasformavano in sussurri udibili a malapena.
«Non è splendida?», sussurrò Samuel a Joanne, con tono reverenziale, in equilibrio sul tetto, con l’orgoglio negli occhi.
Lei sapeva quanto amasse Edimburgo. La sua espressione compiaciuta le strappò un sorriso, mentre ricambiava la stretta. «Sì. Ed è tua».
Le passò un braccio attorno alla vita e la strinse a sé. Il volto dell’uomo divenne serio di colpo. «Sì. Mia, e tua, e dei tuoi fratelli. E’ nostra».
Socchiuse gli occhi, guardando verso il basso, mentre il vento gli scostava i capelli dalla fronte.
Un intero mondo ai suoi piedi, fatto di vita, morte, miseria, fame, dolore, ricchezza, potere. Di segreti e sangue.
Era la sua città, quella, da quasi centosessanta anni. Il suo dominio.
Il loro territorio di caccia.
«È nostra, Joanne», ripeté, duro. «È la mia casa… e non permetterò a nessuno di portarmela via».

3 commenti:

  1. Grazie per il nuovo capitolo! Mi è piaciuta molto la descrizione di Bridget e del mondo in cui vive.
    Aspetto il prossimo!
    Ludovica

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  2. Già finito... :-)
    che tortura, per me che divoro i libri!

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  3. Un terzo capitolo con vari cambi di scena. Mi è piaciuto in particolare il modo in cui descrivi la casa di Bridget.:)

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