venerdì 29 ottobre 2010

Auld Reekie #4

Chiedo scusa se ho tardato a pubblicare la nuova puntata ma ho passato una settimana frenetica. Spero di farmi perdonare anche se immagino già che alcuni di voi mi odieranno per il finale di capitolo... 


4

Al tramonto, Edimburgo era coperta d’oro e cenere: l’oro del sole agonizzante che si rifletteva sull’ardesia e la cenere della pietra, grigia di sporco e fumo.
Anteprima immagineSamuel lasciava che il vento gli scompigliasse i capelli, immobile dinanzi a una finestra dell’ultimo piano di Canongate. Lassù, il puzzo di fogna non era così forte; a folate, invece, giungeva l’odore della legna bruciata nei camini.
Dietro di lui, Lizzie Hates, seduta su una poltrona, ricamava un sampler. Erano nella sua stanza: piccola, con il soffitto basso, un letto a baldacchino, un comò. Le cortine del letto, la coperta, le tende erano in giallo, con piccole foglie e delicate rose ricamate.
«Sei preoccupato».
Lentamente Samuel annuì.
Di una bellezza lussureggiante, Elizabeth Hates aveva fatto girare più di una testa a Edimburgo. Capelli rossi, bocca sontuosa, occhi nocciola, seno prosperoso. In molti avevano tentato di corteggiarla, anche in modo insistente ma tutti erano stati scoraggiati con fermezza. Un uomo ci aveva rimesso il collo. Letteralmente.
Lizzie parlò senza sollevare gli occhi dal ricamo. «Pensi ai roghi di Londra e York, vero?», continuò, fermando il punto sotto la trama. Prese dal cestino da lavoro un rocchetto blu e staccò con i denti il filo, sistemandolo nell’ago.
«Perché non ci nascondiamo?», chiese, placida.
«Non è così semplice. Sparire tutti insieme sarebbe una tacita ammissione di colpa: se alcuni di noi non sono sospettati, lo sarebbero immediatamente una volta svaniti.».
Samuel progettava da tempo di lasciare Edimburgo assieme a Joanne, ma questo riguardava solo loro due: erano in città da molti anni e prima o poi qualcuno avrebbe notato che non invecchiavano o che non uscivano alla luce del sole.
Vivere sotto gli occhi degli umani era tutt’altro che semplice.
Dovevano organizzare la fuga con cura, senza dare nell’occhio. Tuttavia, prima di compiere passi precipitosi, bisognava capire cosa sospettavano i loro cacciatori. Per questo motivo aveva invitato George Dyce: Joanne avrebbe scoperto cosa sapeva il buon dottore, un ex cacciatore divenuto osservatore.
Samuel ringhiò.
I Fratelli della Luce, custodi dell’umanità.
I puri, gli illuminati.
Si nascondevano al buio come vermi, pronti a colpire a tradimento, eppure si proclamavano tutori dell’ordine naturale delle cose. Tutto ciò che gli uomini riuscivano a capire e catalogare era considerato normale. Ciò che non lo era, che sfuggiva alla loro comprensione o semplicemente era diverso, era ingiusto e mostruoso.
Quel pensiero fece fremere Samuel di rabbia.
Ordine naturale delle cose?
Non esisteva un ordine naturale, non esisteva alcun ordine. Punto.
Era una sicurezza che Samuel e quelli come lui avevano raggiunto e superato ormai da secoli: non esisteva alcuna certezza, nessuna fede incrollabile.
Niente è per sempre.
L’infinito era la menzogna cui gli uomini si aggrappavano per non impazzire, pur senza riuscire a sopportarne il vero significato. Se gli esseri umani avessero mai capito che non esisteva alcuna sicurezza, che tutto ciò che li circondava era un’illusione, sarebbero crollati a terra schiantati dal nulla che riempiva le loro vite. Samuel, invece, conosceva bene l’infinito.
E sapeva che in esso non vi era alcuna speranza.
Lizzie si alzò venendogli accanto e gli sfiorò la spalla. «Qualunque cosa accadrà, la affronteremo» sussurrò con dolcezza.
«No. Io dovrò affrontarla, Lizzie: tutti voi siete sotto la mia responsabilità. Ho chiesto a Will di andare a Inverness per trovare una sistemazione per te, Ester e John. Io con Joanne e Oliver andremo nelle Trossachs».
Lizzie corrugò la fronte. «Perché separarci? Non capisco…».
«Stiamo organizzando un piano di fuga, ma molto dipende da ciò che scopriremo nei prossimi giorni. Will vi precederà; tu ed Ester non potete partire da sole, quindi viaggerete con John. Ufficialmente, vi recherete nella vostra casa ad Aberdeen».
«E tu?» Lizzie balbettò. «Joanne? Oliver?».
«Noi partiremo dopo un mese. Oliver non può sparire: sarà il nostro osservatore e continuerà a lavorare in città».
«Zach?».
«Rimarrà in città a far ciò che sa fare meglio: la spia». Samuel la fissò in tralice. «Lui sarà l’ombra del dottor Dyce».
«Ester sa di questi nuovi piani?».
«Non ancora. Gliene parlerà Joanne, stasera. Uscirete a caccia?».
Un lampo di luce fredda brillò negli occhi nocciola della ragazza, rendendoli simili a quelli di una volpe che puntava una preda. «Sì. Vuoi unirti a noi?».
Samuel sorrise lentamente. Lasciò scorrere lo sguardo sui tetti, per soffermarsi su un punto preciso, un mucchio di tetti di legno fatiscenti, a poca distanza dal Castello. Anche i suoi occhi avevano acquistato uno spaventoso, freddo scintillio.
«No. Non stasera», mormorò roco, sfiorandosi le labbra con i denti.
Lizzie gli lanciò uno sguardo e rise forte.


Bridget tornò a casa mentre una notte umida calava sulla città. Alle sue spalle, soffocato dalle nuvole, il sole stava morendo. Lanciò un’occhiata rabbiosa verso il cielo, poi scese sottoterra alla luce delle torce.
Iniziò a sentire le grida dei suoi fratelli già a distanza di alcuni metri.
«Sei tu che me lo hai preso! Ridammelo!». Sembrava Dick, un fratellastro in realtà: solo lei e Joseph avevano avuto lo stesso padre. Gli altri marmocchi che sua madre aveva sfornato erano figli di uomini diversi. Entrò nella stanza in tempo per vedere due ragazzini che si picchiavano; in un angolo sua madre gemeva chiamando Joseph.
Bridget afferrò i due per i capelli. Erano Dick e Charlie.
«Se volete scannarvi andate fuori, maledizione!» gridò, dopo averli separati a forza.
«Mi ha rubato il coltello! Quello di Joseph, con il manico di legno». Dick si avventò contro il fratello minore, cercando di colpirlo con un calcio.
Bridget che si era messa nel mezzo, si prese il colpo sulla gamba. «Ehi! Sta’ fermo, accidenti!».Si voltò verso Charlie. «Lo hai preso tu?».
«Sì! E allora?». Il ragazzino aveva una faccia insolente che ricordò a Bridget l’uomo che l’aveva messo al mondo, un carrettiere senza arte né parte, sparito dopo aver scoperto che aveva un’altra bocca da sfamare.
«Ridaglielo!», ordinò scrollandolo. Per tutta risposta, Charlie la spinse via.
«Chi ti credi di essere per darmi ordini, puttanella?».
Bridget sbarrò gli occhi e un fiotto di rabbia le salì in gola. Senza pensarci, mollò un manrovescio al ragazzino, tanto forte da farlo cadere indietro. Con un rumore simile a uno squittio, il coltello scivolò fuori dalla sua tasca.
Dick fu lesto a prenderlo. Ebbe un sorriso di trionfo più simile a un ghigno, poi scappò.
Charlie rimase a terra, la mano immobile sulla mascella, gli occhi stretti, carichi di lacrime di umiliazione. «È quello che sei! Una battona da pochi penny», biascicò con disprezzo, rimettendosi in piedi.
Bridget non rispose. Arretrò e lasciò che anche lui scappasse via. Cadde in ginocchio ma non pianse. Non piangeva mai, lei.
Charlie aveva ragione: era una puttana. Anche oggi aveva mangiato perché era tornata dal solito cuoco che stavolta, non si era limitato a mettergli le mani addosso: l’aveva portata nel magazzino sul retro e le aveva alzato le sottane. Il tutto era finito in dieci minuti scarsi.
Chiuse gli occhi: voleva scappare via, dimenticare il suo nome, la sua vita.
Nell’angolo, sua madre intonò una strana ninna nanna. Poco lontano, David la scrutò con aria perplessa, indeciso se parlarle o meno. Bridget allungò la mano per fargli una carezza ma lui arretrò, spaventata. La ragazza distolse lo sguardo con una scrollata di spalle. Da una tasca della veste tirò fuori due pezzi di pane e una mela, il ricavato del suo lavoro. Quanto a lei, aveva spuntato un piatto di pasticcio.
«La vuoi?», chiese porgendogli il frutto. David annuì: l’afferrò e la morse.
«Tu dove mangi, Brid?», chiese, a bocca piena.
La ragazza abbozzò un sorriso amaro e gli lisciò i capelli scuri. «Fuori. Tu mangia in fretta, su».
Bridget…
Una sottile corrente d’aria fredda le sfiorò la nuca, uno spiffero gelido, dolce come una carezza. Bridget si voltò di scatto, guardandosi attorno. Ebbe la sensazione che qualcuno la chiamasse…
Nessuno.
Diede un pezzo di pane a sua madre, che teneva stretta una bambola di pezza. Chissà dove aveva raccattato quel pupazzo: erano giorni ormai che non metteva il naso fuori dal tugurio.
Bridget.
Un istante dopo, di nuovo quello spiffero. Freddo, gentile, quasi il tocco di due dita che le sfioravano la nuca; la faceva fremere di meraviglia dalle caviglie fino alla testa. Subito dopo, Bridget sentì le proprie mani tremare.
Vieni da me.
Una smania pressante e inspiegabile, iniziò a risalirle dal ventre fino al petto, alla gola, alle labbra. Le braccia e le gambe divennero pesanti, si sentì soffocare. Non poteva restare lì un minuto di più.
Vieni, Bridget…
«Devo andare» balbettò rimettendosi in piedi sotto gli occhi stupiti del fratellino.
David la fissò da sotto in su con la bocca piena di pane, senza capire che stava succedendo.
Bridget si mise in piedi, gli occhi fissi a terra, le mani impazienti. Raccolse lo scialle e uscì quasi correndo. Non poteva fare altrimenti.
Qualcuno la stava chiamando.


Fuori. Era andata fuori, aveva dovuto farlo.
Edimburgo, adesso, era fatta di buio. Il mondo che conosceva, composto di vicoli e di mura di pietra, era abbracciato da una sottile bruma perlacea. La città aveva perso di colpo i colori che il sole morente le aveva regalato: la notte li aveva rapinati, sostituendoli con un opaco, denso velo che copriva ogni cosa.
Respirando piano, Bridget guardò a destra e a sinistra. Sentì una frenesia oscura di allontanarsi da tutto e tutti, un’agitazione che la stava possedendo. Non potè far altro che obbedire, quasi senza rendersene conto. Il bisogno di correre galleggiava nei suoi pensieri, inspiegabile, e la costringeva ad andare avanti, la guidava tra i vicoli e le strette scalinate, fino alle pendici del Castello.
Come se una voce misteriosa e sconosciuta nella mente la guidasse.
Poi si arrestò di colpo, ansimando. La voce che l’aveva condotta sin lì era sparita dalla mente, lasciandola vuota.
Dove diavolo era finita?
Si guardò attorno a occhi sgranati: stranamente, non sapeva riconoscere il vicolo dov’era finita. I contorni degli edifici erano sfumati, spruzzati di nebbia. Vedeva a destra una luce, e poco più in basso, le rocce della parete est del Castello… ma non era mai stata lì.
Impossibile, si disse scuotendo la testa, stringendo i lembi dello scialle sul petto: conosceva ogni anfratto della città.
Sentì il panico invaderle la mente e toglierle lucidità. L’umidità densa le penetrò nelle ossa, facendola rabbrividire e non solo per il freddo. Si guardò attorno, cercando dei punti di riferimento ma non riuscì a trovarne.
Era Edimburgo, ma non la riconosceva. Incerta, arretrò di alcuni passi, fino a che non trovò alle sue spalle la fredda, scivolosa pietra di un muro. Il cuore iniziò a pulsarle forte, di angoscia e paura: lo sentì sbattere contro le costole, imprigionato nel petto.
Con l’istinto di chi vive per strada, Bridget percepì un pericolo, qualcosa di sconosciuto e spaventoso. Il panico aumentò: non sapeva come fuggire. Perché doveva fuggire, questo era certo, lo sentiva.
Un rumore di tacchi sul selciato.
Istintivamente, Bridget arretrò, nascondendosi nell’ombra di un vicolo. Se avesse potuto, avrebbe cercato di sparire nella pietra: aveva paura, una paura stramaledetta.
Infine, scorse un’ombra muoversi nel buio, in fondo al vicolo. Un uomo con un soprabito scuro, senza cappello. Camminava con calma. E si dirigeva verso di lei.
Giunto a pochi passi dal punto in cui Bridget si era nascosta, le si fermò davanti, la guardò negli occhi. La ragazza si sentì intrappolata da quello sguardo, quasi inchiodata al muro: non riusciva più a pensare, poteva solo respirare a fatica.
«Sei stata svelta. Brava».
L’accento era privo di inflessioni, l’andatura elegante. Doveva essere un ricco, uno sfaccendato. Ma che ci faceva lì, a quell’ora? Come aveva potuto vederla nel buio? E soprattutto, cosa voleva dire con sei stata svelta?
Bridget rimase in silenzio, con gli occhi allacciati a quelli dell’uomo. Quel tizio aveva occhi strani… non sapeva come definirli: scintillavano nell’oscurità, come quelli dei gatti. Era l’unica cosa che riusciva a percepire del suo viso, celato dal buio.
«Hai paura, piccola Bridget?».
La ragazza annaspò verso la parete in cerca di un appiglio, una via di fuga. «Come sapete il mio nome? Che volete?».
Sentì un terrore improvviso risalire dalla schiena, fino a mozzarle il respiro. Arretrò ancora verso il fondo del vicolo e il sudore si mescolò con l’umidità della notte. Il freddo era dentro e fuori di lei.
L’uomo la seguì, tenendosi a distanza. Era alto, forte. Le faceva una fottutissima paura.
Bridget indietreggiò ancora, pensando come scappare. Scattò di lato, verso l’ingresso del vicolo. Subito, un braccio freddo e solido la bloccò e si trovò schiacciata contro la parete, sbattendo la testa sul muro.
Subito dopo, una mano le coprì la bocca. Presa dal panico, la ragazza cercò di morderla. Era cresciuta per strada, non era la prima volta che qualcuno cercasse di aggredirla e non sarebbe stata neanche l’ultima. Scalciò, si dibatté, lottò con pugni, poi raccolse le sue forze e sferrò una ginocchiata verso l’inguine dell’assalitore. Lo colpì con la forza della disperazione, pronta a respingerlo e a scappare via non appena si fosse piegato in due dal dolore.
Non accadde nulla del genere.
Si udì soltanto una risatina soffocata, poi la presa sul suo corpo divenne ferrea. Terrorizzata, Bridget si afflosciò a occhi sbarrati, sconvolta: non gli aveva fatto nulla. Eppure, l’aveva colpito forte! Lui, invece, rideva. Quel bastardo schifoso stava ridacchiando.
La voce dell’uomo fu un mormorio divertito. «Brava, piccola Bridget. Mi piacciono le ragazze che sanno difendersi».
La ragazza avvertì un soffio freddo che le sfiorò l’orecchio. Tentò di divincolarsi di nuovo, alzò un braccio per graffiargli la faccia e costringerlo a mollare la presa, ma lui la tenne stretta tra la parete e il proprio corpo. L’avvolse tra le sue braccia, impedendole qualsiasi fuga.
Era in trappola.
Bridget capì di aver ceduto quando sentì un sapore salmastro sulle proprie labbra: lacrime che rotolavano giù dal viso. Chiuse gli occhi, incapace di fermare i singhiozzi. In quell’istante, il suo corpo smise di obbedirle e si abbandonò contro parete, appoggiandosi quasi all’uomo.
Che facesse pure quello che voleva: era stanca, non ce la faceva più a lottare. Sarebbe stato solo un altro episodio schifoso della sua altrettanto miserabile vita, un’ennesima violenza. Doveva rassegnarsi e sperare che si sbrigasse presto, senza farle troppo male.
L’uomo non allentò la presa; Bridget alzò la testa e lo fissò attraverso il buio: era a pochi pollici, eppure non riusciva a vederlo in viso. Anche lui la stava guardando: con interesse, quasi con curiosità.
«Povera piccola Bridget…».
Stava parlando con lei. Con la mano libera, le sfiorò il viso, dagli zigomi fino al mento, poi scostò via i capelli ricci dal collo.
«Ti hanno tolto tutto. I tuoi sogni, i desideri, persino la speranza… Tua madre è pazza, la tua famiglia distrutta… tuo fratello è morto e tu… tu devi venderti per mangiare. O forse, non hai mai avuto qualcosa che potessero strapparti. È così, non è vero? Tu non hai perso nulla perché non hai mai avuto niente, neanche te stessa. Sei solo una povera disperata».
Come faceva a sapere così tante cose di lei? Bridget sussultò, sconvolta. Non c’era scherno in quelle parole: solo pura, cruda commiserazione.
Eppure, aveva una voce… bella. Calda, carezzevole. Nessuno le aveva mai parlato con tanta dolcezza,, causandole una sofferenza bruciante. Il dolore che sentiva dentro le corrodeva l’anima come acido, ma non poteva, non riusciva a essere infuriata. Nessuno le aveva mai sfiorato il viso a quel modo: con riverenza, come se fosse stata preziosa. Cercò di nuovo il volto dell’uomo, ma non riuscì a trovarlo nel buio. Scorse soltanto gli occhi, luminosi e fredde come pietre preziose.
Intuì che l’uomo stava sorridendo. «Chi sei?» balbettò, pur sapendo che non avrebbe avuto risposta.
«Ti importa davvero? No… Ormai non hai più nulla da perdere. Piccola ragazzina senza speranza… La tua è una vita inutile».
Era vero.
Bridget chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un singhiozzo: era tutto maledettamente vero. Lei era solo una spina nell’infinito roveto del mondo, non una rosa. Non si era mai fermata a pensare tanto in tutta la vita come in quegli istanti, in quella notte: non aveva mai avuto coscienza di sé, della propria inutilità e del dolore che aveva dentro.
La solitudine l’assalì alle spalle, così come aveva fatto poco prima la paura. E fu mille volte più devastante.
«Cosa vuoi da me?», riuscì a balbettare. Una strana sensazione le dilagava nell’animo, invadendola a grandi onde: una calma innaturale, che sommergeva ogni pensiero cosciente, guidandola per mano nel buio. Lontana da se stessa e dal mondo, lontano da tutto.
«Tu vuoi smettere di soffrire. Lasciati andare Bridget, lascia andar via il dolore. Permetti che io ti dia la pace».
Sì… la pace.
Il nulla, il buio, il vuoto, lontano dal dolore. Non aveva voglia di pensare: pensare faceva troppo male e lei non voleva più soffrire. Cullata da quella voce, sentì il corpo farsi morbido, cedevole. Sì, cullata, come se fosse stata di nuovo una bambina molto piccola, senza pensieri, senza preoccupazioni se non quella di trovare il seno di sua madre.
Sentì il terrore scivolare via, l’angoscia sciogliersi.
La presa dell’uomo si trasformò in una stretta più simile a un abbraccio. Era avvolgente e, insieme, cauta. Per la prima volta nella sua vita, la ragazza si sentì al sicuro: chiuse gli occhi, lasciandosi andare contro il petto dell’uomo e due braccia forti si richiusero su di lei, in una vertigine oscura.
Cadde in una spirale di buio e silenzio. Si sentiva leggera, vuota. Il suo pensiero cosciente era trascinato alla deriva dalla corrente dell’oblio, come una barca senza ancora verso un banco di nebbia sospeso sul lago della coscienza. Un frammento della sua mente urlò: doveva reagire, tutto ciò era assurdo.... Bridget, con un sussulto di volontà, respinse quella voce: stava bene. Non sapeva quanto sarebbe durato quello stato di grazia e voleva approfittarne.
Era così bello sentirsi svuotata da ogni angoscia, dall’astio, dalla rabbia. Solo il silenzio.
Non percepì il puzzo di quel vicolo fetido. Non avvertì il freddo sempre più forte che le impregnava la pelle, non sentì le dita dell’uomo abbassarle il colletto della camiciola, sfiorandole il collo con labbra gelide, né il suo scialle che finiva a terra.
Non percepì il suo corpo farsi debole, o il battito del suo cuore sincopato. Il dolore alla gola che diventava bruciante.
Non vide quei due occhi vispi, spaventati che la sbirciavano dal fondo del vicolo.
Sentì la pace, il silenzio, il corpo che perdeva consistenza fino a sparire. Si sentì pulita, per la prima volta nella sua vita.
Per la prima e ultima volta in tutta la vita.

5 commenti:

  1. Stefi come hai preannunciato ti potrei odiare solo se non pubblicherai più nulla, lasciandoci nell'incertezza di quel che potrà accadere ancora; per il finale, beh, non voglio sembrare cattiva e senza cuore ma l'ho trovato toccante, si capisce la sofferenza e lo sfinimento della ragazza, la sua voglia di lasciarsi andare a qualunque cosa pur di non soffrire più.. su questi vampiri ho solo da dire una cosa: da te non mi aspetto niente di diverso da come li descrivi perchè rappresentano veramente i vampiri che sappiamo, finora tra tutti quelli che ho letto i tuoi sono i più veritieri. un bacione, Diana

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  2. Per me sei una scrittrice superlativa. Migliore di tante italiane più famose. Il tuo modo di scrivere è intenso e toccante. Quando leggo un tuo racconto entro dentro la storia e la realtà scompare. Solamente che ... sono così ... spietati, senza speranza e tristi. A volte un ottimo libro non ha il lieto fine. Tu sicuramente sei una scrittrice al di fuori degli schemi. Affascinante, come i tuoi vampiri.
    Però, mamma mia, che tristezza, il tuo finale mi ha graffiato il cuore. Ma, secondo me, meglio un graffio nel cuore che la noia assoluta di alcuni libri, scritti da autrici più conosciute.
    Bravissima
    Lucia

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  3. Bravissima.
    Samuel è un vero vampiro, spietato, affascinante... ma, perdonami, non ho ancora capito come sceglie le vittime. Cosa lo porta ad uccidere, cosa a torturare.
    Di certo non potevano uccidere ogni volta che andavano a caccia, altrimenti avrebbero sterminato la popolazione di Edimburgo.
    Quello che mi lascia perplessa è comprendere cosa possa attivare la vena sadica, cosa quella omicida e perché qualcuno restava graziato...

    Lo capirò in seguito?

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  4. dove sono il due e il tre????????????????????????
    mi scirivi ti prego mariservicessrl@yahoo.it

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  5. Bello e davvero triste. Non pensavo che per lei finisse così.
    Corro a leggere gli altri, sono rimasta indietrooo!!!

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