mercoledì 6 ottobre 2010

AULD REEKIE #1

L'avventura ha inizio. Troverete il buio, la notte e la paura ma non abbiate timore. Prendete la mia mano e seguitemi....

AULD REEKIE
Prima parte: Alla luce del giorno.

Prologo

Londra, agosto 1846

C’era stato un incendio quella notte. Volute di fumo scuro velavano il cielo di un’alba appena accennata. Il puzzo di bruciato impregnava l’aria più del tanfo di carbone e fango che avvolgeva la capitale come una coltre.
Una palazzina tranquilla, in una stradina solitaria del quartiere di Kensigton era andata a fuoco e nulla aveva potuto salvare i suoi abitanti.
Erano morti, tutti.
Poliziotti e curiosi erano andati via in fretta. Non c’era più nulla da vedere, niente da prendere. Ormai la casa era uno scheletro abbandonato, le macerie dell’edificio erano simili a ossa annerite, coperte di fuliggine.
Eppure…
Alcuni uomini in abiti scuri si aggiravano tra le rovine senza parlare, scostando pezzi di legno, frugando alla ricerca di qualcosa che il fuoco aveva risparmiato. Non erano razziatori, si capiva dal modo in cui si muovevano: attento, gli occhi fissi a terra, le mani inguantate che sollevavano le assi risparmiate dal fuoco con cura.
Uno di loro, un uomo leggermente claudicante, vestito con uno spesso mantello scuro, teneva un cappello calato sugli occhi e dirigeva i suoi compagni con gesti secchi, mentre il suo sguardo scivolava tra cenere e rovine.
Sì, stavano cercando qualcosa.
A un tratto, un uomo ebbe un piccolo grido di trionfo: c’era una piccola cassaforte incastrata in un muro pericolante. L’incendio non sembrava averla danneggiata. Era salda, al suo posto.
L’uomo zoppo si avvicinò e represse un gesto di esultanza.
«Staccatela da muro e portatela alla sede della Fratellanza. Che non vi veda nessuno» ordinò a bassa voce.
L’uomo che aveva trovato la cassaforte sorrise. «Me ne occuperò io», mormorò, lasciando scorrere la mano lungo il pannello di metallo. «Ci saranno gioielli dentro?» chiese poi, con la voce incrinata.
Lo zoppo sospirò, piano. «Oh, può darsi… ma non è questo ciò che ci interessa. Giusto?».
L’altro annuì, con una smorfia. «No», considerò, guardandosi attorno. Dai suoi occhi affiorò un disagio improvviso e si allontanò di qualche passo.
«Ne abbiamo eliminati parecchi, ieri sera. E’ stato impressionante vederli morire così, accartocciarsi e ridursi in cenere… Non lo dimenticherò tanto facilmente», ammise in un soffio.
«Non li abbiamo uccisi, Richard», lo interruppe l’uomo. «Non abbiamo ammazzato nessuno: erano già morti da decenni o ancor di più. Sono senza anima, corpi senza sangue, parassiti schifosi che devono essere distrutti senza tentennamenti. Essi sovvertono l’ordine della vita con la loro sola presenza. Noi siamo I Fratelli della Luce, non siamo ne assassini, né ladri o torturatori. È nostro compito quello di rimettere ordine nel mondo. Ricordalo. Sempre».

1

Edimburgo, settembre 1846

Strana mattina, quella. Il cielo di un azzurro tanto intenso da sembrare irreale, era coperto da nuvole simili a fiori di cotone sporchi, trascinate da un vento tagliente. Il sole che fino a pochi istanti prima aveva ricoperto il selciato e le facciate di pietra di Grassmarket era sparito e adesso si era trasformato un disco bianco e opaco, celato da una cortina di nubi.
Da lì a poco sarebbe piovuto.
Ma questo alla folla non interessava. Centinaia di teste ondeggiavano, senza un ritmo coerente, invadendo ogni angolo della piazza del vecchio mercato. C’era puzza: un tanfo nauseante e malsano, che il vento non riusciva a scacciare via del tutto. Arrivava a folate, disgustoso: odore di uomini e animali, sudore, escrementi, vomito, paglia e foglie marce, cavoli andati a male e carne putrefatta.
Era una mattina piena di traffico, voci e persone. Ragazzini arrampicati sui lampioni, sugli alberi; un mucchio di gente che si sporgeva dalle finestre, gesticolando. E carrozze. Molte carrozze tirate a lucido, ferme tra il limitare della piazza e Castle Wynd north.
Sotto la volta annerita dei closes, gli strilloni vendevano lo Scotsman e l’Evening post. Poco distante, una venditrice di pannocchie, vecchia, con un gran fazzoletto in testa; più in là, dei monelli che si rincorrevano tra la folla. Ancor più lontano, un gruppo di uomini ben vestiti, mercanti forse, che discutevano con un occhio alla strada e un altro alle signore non troppo coperte, affacciate al secondo piano di un vecchio edificio, su un angolo della piazza.
Tra un po’, sarebbe iniziato lo spettacolo. Era quello il motivo per cui tutta quella gente era riunita lì: il palcoscenico era già pronto e uno degli attori principali stava tranquillo ai piedi della scala, con le braccia conserte, in attesa.
Il vento dell’ovest si fece più freddo, insistente. La pioggia sarebbe arrivata prima di quanto si pensasse.
All’improvviso, il mormorio che animava la piazza crebbe d’intensità divenendo quasi un grido. Braccia, mani, teste, tutti si voltarono verso un piccolo carretto trascinato da un cavallo troppo stanco, guidato da un carrettiere di mezza età. Tre uomini, su quel carretto. Due in uniforme rossa, armati. Uno in catene.
Altri soldati iniziarono a spingere indietro la folla con i fucili, per aprire un varco al carro. La folla rumoreggiò, protestò, ondeggiò e infine si aprì, districandosi come una matassa mentre gli insulti si mescolavano con le grida dei militari.
Lentamente, il conducente portò il carretto al centro della piazza. Un palco di legno annerito dall’umidità sorgeva proprio laggiù. Certo, sarebbe stato più corretto definirla impalcatura: quel palo piantato nel mezzo non andava molto d’accordo con il concetto di teatro. Ancor meno quella corda che ondeggiava leggera al vento, o l’uomo con uno spesso cappuccio sul viso ai piedi della scala.
A Edimburgo, le impiccagioni erano state sempre un evento, per tutti: ricchi e poveri, giovani e vecchi. Un vero spettacolo.
C’era un insano piacere nel vedere un uomo che muore, per alcuni; per altri c’era il sollievo: quella volta non era toccata a loro. Per altri ancora, era la conferma che l’ordine sociale esisteva e che aveva la forma di una robusta corda di canapa e di un nodo scorsoio.
L’uomo nel carretto iniziò a tremare. Era poco più di un ragazzo, in verità, con addosso solo un paio di pantaloni e una camicia bianca. Le gambe gli cedettero, di schianto e i soldati di guardia furono costretti a sollevarlo di peso. Si riscosse e faticosamente si rimise in piedi, stringendo i pugni. Guardò a terra. Non voleva far vedere che stava piangendo.
Iniziò a salire i gradini, arrancando. Dalla folla, si alzarono urla: c’era bisogno di silenzio, in quel momento. Era il contegno del condannato a rendere memorabile un’impiccagione.
Lo spettacolo stava per iniziare.

«Non capisco perché tu sia voluto venire qui, Samuel. C’è un fetore orribile». La giovane donna scosse la testa e il cappello ondeggiò, amplificando il disappunto della sua proprietaria.
L’uomo cui si era rivolta le prese la mano, appoggiandola sul suo braccio e si limitò a sorriderle. «Osservazione scientifica, Joanne. Trovo le impiccagioni uno dei momenti migliori per valutare la tempra della natura umana».
La loro carrozza si era fermata al termine di Candlemaker Row, in un punto da cui si aveva una perfetta visuale del patibolo. Di colpo, il cielo si era fatto plumbeo, la luce uniforme e opaca. Un impalpabile velo di grigio si era steso sulla piazza, cancellando tutti i colori.
Dalla vettura scese un’altra figura, un uomo massiccio. Spalle larghe, muscolose, una larga barba rossa, occhi nocciola, scrutatori, folti capelli biondo rossicci legati in un codino. Si mise accanto a Samuel, fissando con interesse la scena che si svolgeva sotto i loro occhi.
«Era innocente, secondo voi?», domandò, mentre un sacerdote si avvicinava al condannato.
L’altro uomo non rispose subito. Lasciò scorrere lo sguardo sulla folla sotto di lui, pigramente, per soffermarsi infinesul boia.
«Colpevole? Innocente? E’ solo una questione di punti di vista: per alcuni, rubare per fame è un crimine, per altri è una necessità. Non ha molta importanza a questo punto, Will. Quel ragazzo è stato solo sfortunato a farsi beccare. Tutto qui».
Dalla folla, in quell’istante, si alzò un grido. Un pianto disperato.
«Cielo, che lagna insensata!».
A parlare era stata la donna. Una smorfia arricciò il suo viso diafano. Aveva occhi allungati, di un azzurro chiarissimo e capelli biondo oro. Molto graziosa, non c’era nulla da dire. Bel corpo, bel portamento, alta al punto giusto, morbida dove doveva esserlo.
Will emise un sospiro. «Fa parte dello spettacolo, Joanne. I parenti in lacrime, le invettive e tutto il resto. È molto, molto umano».
Lei rispose con un curioso suono di scherno.
Al centro, Samuel fece un cenno con il dito, infastidito. I due tacquero immediatamente.
Qualcuno, un giudice forse, stava leggendo la sentenza di morte. Altre urla, più forti, lo costrinsero a interrompere la lettura più volte. A gridare non era solo una donna anziana: c’era anche una ragazza.
Giovane, giovanissima. Capelli scuri scarmigliati, un abito marrone, le braccia tese verso la forca. Scalciava, mordeva e graffiava chiunque cercasse di trattenerla. Voleva salire lassù. Era un piccolo concentrato di paura, rabbia e dolore. Ma non era disperata, quello si capiva: era scatenata, una piccola furia che voleva liberare… chi? Suo marito? Fratello? Amante?
Samuel strinse gli occhi, studiandola incuriosito.
«Will», mormorò, inclinando appena il capo verso la spalla, con gli occhi fissi sulla scena. «Chi è quella ragazza?».
L’altro alzò la testa per guardare meglio. Alla richiesta dell’ufficiale che aveva letto la sentenza, il ragazzo aveva scosso la testa: no, non aveva nulla da dire, poi aveva iniziato a piangere forte. Il boia lo aveva fatto salire su una piccola panchetta.
Numerose urla di scherno si alzarono dalla folla: una chiazza umida si era allargata nei pantaloni, all’altezza del basso ventre. Il corpo stava pagando già il suo pegno alla paura.
«Quella che strepita, accanto alla vecchia?».
«Sì».
«Credo sia la sorella di Joseph Tibbs, il condannato».
Samuel sorrise, sollevando un angolo della bocca e socchiuse gli occhi. Il boia aveva sistemato il nodo scorsoio e adesso si trovava vicino alla leva per sganciare la caditoia.
«Cerca notizie su di lei, Will. Come si chiama, dov’è il buco che chiama casa, cosa fa. Tutto».
L’altro annuì senza un commento. Si allontanò, mescolandosi alla folla e sparì, mentre minuscole gocce di pioggia precipitavano al suolo, trascinate giù da un vento insistente.
Joanne inclinò il capo, guardando il suo compagno in tralice. «Interessante creatura, non è vero? Sembra una gatta selvatica», mormorò.
Samuel le rispose con lo stesso sguardo, poi tornò a fissare la ragazza. Annuì e sorrise con lentezza. Un sorriso freddo, accompagnato da una luce strana, quasi famelica negli occhi.
«Mi piace. La voglio».
Il boia sganciò la botola.


Dopo l’impiccagione, la folla si disperse con lentezza. C’era sempre qualcuno da salutare, o un altro con cui commentare gli ultimi avvenimenti. I mercanti si diressero verso la palazzina dove le signore poco vestite abitavano; altri restarono a ciondolare sotto la forca, osservando il cadavere che dondolava, bagnato dalla pioggia leggera.
Samuel e Joanne erano rientrati nella carrozza. Attendevano il ritorno del loro compagno, Will, senza parlare, scrutando la folla che sciamava, un insieme confuso di persone che urtava la vettura, facendola sobbalzare sul selciato di pietra.
All’improvviso, la donna ridacchiò e si voltò verso il suo compagno. Negli occhi aveva una luce brillante, in cui danzavano impazienza e divertimento. «Oh, Samuel! Sono così felice che questi anni a Edimburgo stiano per terminare! Sono stati lunghi come un’eternità. Mi sono sentita come un animale in gabbia, qui. Non vedo l’ora di tornare nelle Trossachs».
«Dunque non ti è piaciuto essere la signora Griffin». L’uomo rispose senza guardarla, a voce bassa. Continuò a fissare i volti, fuori dal finestrino.
L’altra rise divertita come una bambina. «Non ho molte alternative per vivere con te e con i nostri fratelli sotto gli occhi di tutti: posso essere solo tua moglie o tua sorella».
Samuel si voltò, con una luce maliziosa nello sguardo.
«Dici? Potresti fingere di essere la moglie di Will».
Lei alzò i palmi delle mani, in segno di difesa. «Ho già fatto questa prova, se ben ricordi, e mi è bastata. No, grazie».
Samuel alzò le sopracciglia con un cenno di assenso; poi, in tralice scrutò la sua compagna, nascosta dalla penombra dell’abitacolo. Joanne dimostrava non più di venticinque anni e, ufficialmente, era sua moglie. Una donna bella ed elegante, come si addiceva a una ricca esponente della middle class scozzese. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare chi fosse.
Cosa fosse.
Quanto a lui… anche lui era stanco di quella recita. Andava avanti da quasi un decennio e in una città come Edimburgo era difficile mantenere dei segreti.
Case strette, addossate le une alle altre, abbarbicate allo sperone di roccia su cui sorgeva a Castle Rock. Pareti sottili, o marce; miglia e miglia di cunicoli sotto terra, abitati da chi non poteva permettersi una casa in superficie, e che mettevano in comunicazione tutta la città.
I segreti erano la vera ricchezza, ad Auld Reekie. I loro valevano molto, molto di più.
Anche Joanne lo stava studiando, osservando il riflesso  sbiadito dell’uomo sul vetro del finestrino. Avere un marito come Samuel sarebbe stato la felicità di ogni donna. Alto, spalle larghe. Capelli biondi scuri, con piccole ciocche disordinate che gli cascavano sulla fronte; occhi di un azzurro profondo, intenso. Viso pallido e affilato, liscio. Mani eleganti. La prima volta che lo aveva visto, aveva pensato che somigliasse più a un angelo che a un essere umano.
Tutto in lui era di una bellezza angelica. Tutto tranne il suo sguardo.
Vuoto. Raggelante. Indifferente. Gli aggettivi per descriverlo si sprecavano ma nessuno sarebbe stato in grado di definirlo davvero.
Avevano una sintonia perfetta, tale da ingannare chiunque: agli occhi dell’intera città, erano una coppia splendida e questo la divertiva, parecchio. Com’era facile ingannare gli uomini, mostrare loro ciò che vogliono vedere…
Lei… tutti “loro” avevano un cinismo che nessun essere umano avrebbe potuto mai avere. Per lei osservare i ridicoli tentativi degli esseri umani di cambiare il corso della propria esistenza era causa di divertimento. Talvolta di disprezzo. Raramente di ammirazione.
Ma anche questo, ormai le era venuto a noia: non c’era più nulla che potesse stupirla.
Odiava attendere. Odiava quei mesi che la separavano dal ritorno nella loro tenuta nelle Trossachs e odiava aspettare, come in quel momento, chiusa nella carrozza. Will ci stava mettendo troppo tempo.
Quasi evocato dal suo pensiero, l’uomo spalancò lo sportello. Entrò nella carrozza e l’ambiente sembrò restringersi, riempito dal suo fisico massiccio. Samuel diede un paio di colpi sul tetto della vettura, che partì immediatamente.
«Allora?» chiese aggiustando il plastron della cravatta.
«Si chiama Bridget Tibbs. Ha quindici anni, vive con sua madre e altri cinque fratelli dalle parti di Lawnmarket».
«Sopra o sotto?».
«Sottoterra, nei vicoli: hanno una stanza sotto la strada. A quanto pare, Joseph era l’unico che riusciva a raccattare qualcosa con i borseggi. Sua madre ha fatto la lavandaia fino a due anni fa, quando una pentola di lisciva le è finita in faccia e l’ha accecata. Sono degli autentici relitti».
«E lei?».
L’uomo accarezzò la folta barba rossiccia. «Ha aiutato sua madre per un po’, poi è andata a servizio ma l’hanno licenziata non appena si è saputo che suo fratello era stato arrestato per furto. Ha sempre trovato il modo di arrotondare, comunque».
Con lo sguardo, Samuel lo invitò a continuare.
«Un amico di suo fratello mi ha detto che non è molto brava a sfilare portafogli ma lo è sicuramente di più ad aprire le gambe».
Aveva iniziato a piovere. Una pioggia violenta, arrabbiata, che staffilava il tetto della vettura e filtrava attraverso la porta della carrozza. Sotto l’acqua, le facciate di pietra della città vecchia scintillavano come argento brunito; i segni delle ruote delle carrozze erano simili a frustate sulle strade fangose, ingombre di carri e passanti che correvano per cercare un riparo.
La pioggia riempì con il suo odore i vicoli, i cortili, le scalinate. Sembrava voler lavare via tutta la sporcizia che incrostava Edimburgo e che ne avvelenava l’aria, pensò Samuel. Peccato che questo non fosse possibile: sarebbe dovuta cadere una pioggia tanto forte da scorticare i suoi abitanti per eliminare l’odore di tutto quel lerciume.
C’era una gran differenza con la New Town, la città nuova che stava prendendo forma ai piedi di quella vecchia, verso nord. Aveva comprato un’intera costruzione laggiù, in una piazza tranquilla, poco abitata. Aria pulita. Strade larghe, viali alberati, persino l’acqua corrente. Era un lusso un po’ costoso ma tutto sommato, poteva permetterselo: possedeva un’impresa di export, che trafficava con le colonie indiane e cinesi. Un’attività redditizia che adesso stava liquidando, in prospettiva alla sua futura partenza.
Viveva a Edimburgo per troppo tempo, dieci anni. Era arrivato il momento di sparire.
Di tornare nelle Trossachs, nella sua vera casa.
Quel pensiero gli procurò un brivido di piacere. Le immagini di Loch Ard e della foresta nella sua tenuta lo staccarono dalla realtà, per qualche istante. Il suono della pioggia sulle foglie. Il ticchettio della rugiada, lo scorrere del vento tra le querce dinanzi alla casa, il leggero crepitio della ghiaia sotto gli zoccoli dei cavalli, la luce delle stelle di notte che si riflettevano nelle acque gelide ed immobili del lago…
Una frenata leggera e il tintinnio delle briglie lo strapparono dalle sue riflessioni. Una parete in pietra, bagnata di pioggia comparve dinanzi ai suoi occhi. Erano arrivati a casa.

NON PERDETE IL PROSSIMO EPISODIO! STAY TUNED!

11 commenti:

  1. Stupendo!! Non vedo l'ora di leggere il seguito... XD

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  2. E brava Stefania...sei sicura di essere un'emergente? Sei fredda e cruda nel momento giusto e lasci intravedere dolcezza che sicuramente comparirà al momento opportuno!

    Samanta

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  3. Ciao, è il primo dei tuoi romanzi che ho il piacere di leggere. Bello!Aspetto con grande cuoriosità di leggere il prossimo episodio.
    A presto.

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  4. grazie ragazze, spero che il seguito vi possa "acchiappare" come questo ;-)

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  5. Ciao Stefania
    mi piace l'idea di un romanzo a puntate (come nei feuilleton del passato) perchè si aspetta con ansia il seguito :-)
    Il tuo romanzo mi piace, certo siamo solo all'inizio ma i personaggi sono molto intriganti soprattutto Samuel.

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  6. ciao, da quel poco che hai svelato in questo prologo devo dire che mi "acchiappa" proprio! hihi
    p.s. aspetto il seguito ;)

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  7. cara Stefi sinceramente ancora non capisco perchè non ti ritroviamo tra gli scaffali assieme ad altre autrici, te lo meriteresti proprio!! domandina: ma questo Samuel è sempre quello che ho letto io nel tuo primo libro? un bacio, diana

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  8. Shi, è sempre lui, sempre bello e bastardo ;-)
    quanto alla domanda che mi poni... non lo so!
    Grazie a te e alle ragazze che mi stanno leggendo con tanta pazienza. La prox settimana troverete la nuova puntata

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  9. Ciao! Eccomi anche qui sul tuo blog!
    L'ho letto e mi è piaciuto! Grazie ancora per averci fatto pubblicare il racconto sul nostro forum ^_^ Al prossimo capitolo!
    Selly

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  10. Ho letto anch'io questa prima parte del tuo romanzo a puntate, non male. A rileggerti. A presto.

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